mercoledì 30 novembre 2011

Real steel

Regia: Shawn Levy
Origine: Usa
Anno: 2011
Durata: 127'



La trama (con parole mie): siamo nel prossimo futuro, e la boxe umana è stata completamente sostituita da quella robotica, in cui combattenti comandati da programmatori si giocano il titolo assoluto battendosi fino a finire in pezzi. 
Charlie Kenton è un ex pugile da sempre in cerca della grande occasione che, nel corso della vita, ha lasciato alle sue spalle più macerie che altro, dal cuore di Bailey, figlia del suo defunto allenatore, a quello del figlio undicenne Max, che morta la madre si ritrova a dover passare con Charley un'intera estate prima di essere affidato alla zia.
Il rapporto tra i due è problematico, e non lo aiuta il pessimo karma di Kenton senior, che inanella una serie di affari sbagliati, debiti e sconfitte dei suoi robot da record: eppure, quando in una discarica il giovane Max recupera il vecchio Atom - un prodotto della generazione precedente a quella del campione in carica Zeus - la fortuna ed il destino paiono cominciare a girare a favore dell'improvvisata famiglia.
Sarà l'occasione per entrambi di crescere e provare l'ebbrezza di una rivincita "del popolo".



Parliamoci chiaro fin da subito: Real steel è un film totalmente, inesorabilmente americano - nell'accezione peggiore del termine -, ruffianissimo, telefonato come pochi - i riferimenti a Rocky e Over the top sono così evidenti che sono stato convinto fino all'ultimo che dal buon Atom facesse capolino il vecchio Sly, troppo a digiuno di pugilato per resistere alla tentazione di salire di nuovo sul quadrato -, a tratti retorico ed elementare nell'esecuzione, nella messa in scena e nello sviluppo della storia.
Senza se e senza ma.
Eppure mi è piaciuto da pazzi.
Posso dire anzi che, in qualche modo, e con tutti i suoi palesi limiti, il lavoro di Shawn Levy è stato tutto quello che mi sarei aspettato da Warrior, rispettando quanto più poteva le analogie con il Balboa de noartri che hanno fatto la parte del leone nella campagna pubblicitaria della pellicola: certo, il mio parere è assolutamente personale, di parte e di pancia, eppure l'intera operazione mi ha ricordato lo spirito che ha guidato Abrams nella realizzazione dell'ottimo Super 8, ovvero una sorta di omaggio a quello che erano i film "di formazione" nel decennio d'oro che furono in questo senso gli eighties.
Seguendo le vicende di Charlie e Max Kenton - per quanto "facile" risulti lo script, a tratti quasi disneyano - ho avuto per tutto il tempo davanti agli occhi l'immagine di me seduto in sala a casa dei miei, con il panino al prosciutto, la Coca Cola, le patatine, mio fratello sul tappeto a squartare qualche giocattolo e la mia immaginazione che correva tra l'immedesimazione con i protagonisti più giovani ed il desiderio, una volta cresciuto, di diventare tosto e forte come i padri o i mentori di turno - e torniamo al discorso del già citato Over the top -: ai tempi, le vecchie vhs contribuivano ad alimentare la fantasia come fossero il libro di Bastian ne La storia infinita, e lo spirito che mi ha attraversato nel corso di questa visione è stato esattamente, clamorosamente lo stesso.
Riconosco che, a mente fredda o guardandolo con altri occhi, questo non risulterà nient'altro che l'ennesima baracconata - pur realizzata con artigianale accuratezza - a stelle e strisce, ma nonostante abbia provato in tutti i modi a ridimensionare le imprese di Atom e dei suoi due manager non sono proprio riuscito a frenare il mio entusiasmo: dalla danza improvvisata di Max agli occhi blu di un robot tra i più umani passati sul grande schermo fino alla "modalità ombra" con Charlie a mostrare all'automa ogni movimento da eseguire, ogni colpo da portare a segno, tutto in questo film mi è parso un'emozione pura come quelle che solo da bambini si possono prevare, "giovani e innocenti", come si potrebbero definire in ambienti più altezzosi del mio saloon.
L'undicenne protagonista si fa carico della tradizione che fu di Sly e Ralph Macchio portando sui due ring - quello sportivo e della vita - tutto il bagaglio di cui i losers si fanno carico nel corso della loro quotidiana lotta per guadagnarsi un centimetro alla volta quello che ad altri piove addosso, ed il suo Atom rappresenta al meglio la categoria: come il Rocky del primo film della saga dello Stallone Italiano il piccolo robot figlio della discarica, grande incassatore perchè progettato per l'allenamento dei modelli da combattimento, diviene progressivamente l'incarnazione dei sogni di Max e del riscatto di Charlie, giunto ad un punto della sua vita in cui tutto pare essere alle spalle, eppure nulla - o quasi, Max docet - pare rimasto a testimoniare il suo passaggio in questo mondo.
E nell'escalation che porta l'insolito sfidante ed il suo curioso team padre/figlio a fronteggiare l'imbattuto Zeus, macchina da guerra in grado di annichilire ogni avversario al primo round torna prepotentemente tutta quell'innocenza guascona e bonaria tipica del Made in Usa, che sarà retorica, scontata e tutto quello che volete, ma azzecca un incontro e una chiusura divertenti, coinvolgenti e tutte clamorosamente dalla parte - seppur con criterio - di questo nuovo "campione del popolo", un Atom che ricongiunge un potenziale Randy the Ram ad un figlio che non sarà più solo, e negli occhi di quel "piccolo" robot - un pò come fu per il bellissimo Il gigante di ferro di Brad Bird - troverà la stessa emozione e gli stessi sogni che, ormai parecchi anni fa, provavo anche io, quando immaginavo di essere protagonista della mia vita, e passavo dallo sperare di essere il miglior figlio possibile al sognare di diventare il più tosto padre possibile.
E ora che mi trovo quasi nel mezzo, me ne frego di quanto pacchiano possa sembrare Real steel, e mi godo un brivido che arriva da entrambe le parti.
Senza contare Atom, che è un piccolo robot outsider e incassatore pronto rialzarsi ad ogni colpo subito, e chissà, un giorno arrivare a mettere l'indiscusso campione con il culo per terra.
La posizione in cui lui ha passato gran parte della sua vita.


MrFord


"There's this love that is burning
deep in my soul
constantly yearning to get out of control
wanting to fly higher and higher
I can't abide
standing outside the fire
standing outside the fire
standing outside the fire
life is not tried, it is merely survived
if you're standing outside the fire."
Garth Brooks - "Standing outside the fire" -


martedì 29 novembre 2011

Breaking dawn Parte 1

Regia: Bill Condon
Origine: Usa
Anno: 2011
Durata: 117'



La trama (con parole mie):  Bella e Edward, terminato il liceo, finalmente coronano il loro sogno d'amore convolando a nozze, con sommo dispiacere del licantropo Jacob e stupore degli ex compagni di scuola umani. 
In luna di miele Bella costringe finalmente Edward - che alla religione e alle tradizioni ci tiene - a fare sesso nonostante i clamorosi rischi - quello di godersela un pò, forse!? -, e non contenta fa di tutto perchè il vampiro ripeta la performance più di una volta, tanto che alla fine quello ci casca e la ragazza rimane incinta.
Peccato che essere ingravidate da un vampiro provochi effetti collaterali mai visti, oltre all'incertezza assoluta a proposito del nascituro, con il rischio concreto che sia un mostro assetato di sangue pronto a distruggere tutto e tutti.
A questo punto i licantropi vicini dei Cullen, guidati dall'arcigno Sam, faranno di tutto per tornare sul sentiero di guerra e rimettere i succhiasangue al loro posto.




Lo scorso anno, quando uscì in sala Eclipse, pensai che, nonostante la clamorosa bruttezza della pellicola, ci fosse perlomeno qualche speranza di vedere venata di una leggera autoironia la parte conclusiva di una delle saghe letterarie e cinematografiche qualitativamente peggiori della Storia, legata alla vicenda amorosa del vampiro Edward Cullen e la giovane umana Bella Swann.
Invece, con la prima parte del fortunatamente ultimo capitolo di questa merdata di proporzioni bibliche per quindicenni in crisi ormonale post-cartoni animati, il pessimo Bill Condom torna sui binari dell'agghiacciante New moon, uno dei teen movies peggiori di sempre: confesso che, nel corso dei primi venti minuti di Breaking dawn, la mia incredulità ha raggiunto livelli mai visti prima rispetto al fatto che qualcuno possa essere stato davvero pagato - e profumatamente, pensando ai giovani protagonisti - per produrre questa roba e portarla sullo schermo.
Il retrogusto profondamente cattolico della vicenda - proveniente probabilmente dai libri, e legato alla terrificante evoluzione della storia d'amore di Edward e Bella, una delle più smielate, patetiche, noiose e clamorosamente finte mai portate sullo schermo -, unito ad una recitazione ai livelli del parrucchino di Nicholas Cage o di quello, ben peggiore, di Steven Seagal, una sceneggiatura da soap televisiva ed effetti visivi così portentosi da non mostrare nulla di quello che sarebbe interessante mostrare - le trasformazioni dei licantropi, così veloci da ricordare quelle dei Transformers, mi hanno ricordato quanto miracolosa resta la magia di Un lupo mannaro americano a Londra - targato 1981, Taylor Lautner è nato nel 1992: viva i Classici - fanno di Breaking dawn un serissimo candidato al primo posto nella classifica dei peggiori film del 2011 che mi accingo a preparare per fine anno, arrivando, nella mia mente, anche a minacciare schifezze subumane quali Tekken e Dylan Dog, orrori giunti senza un perchè sul grande schermo.
Ma andando oltre il futuro destino di questo film nelle classifiche fordiane, i ridicoli scambi di sguardi tra i due innamorati e la totale incapacità a livello attoriale di Pattinson e della Stewart, sopravvissuti - noi spettatori, non loro - a stento all'assurda sequenza del matrimonio, incontriamo il peggio solo con la partenza dei piccioncini per la loro luna di miele, un campionario di scene in grado di infrangere la barriera del ridicolo involontario per giungere, semplicemente, nel magico mondo dell'immondizia non solo cinematografica: oltretutto, per una vicenda che dovrebbe - almeno in teoria - rappresentare un amore traboccante passione e romanticismo, la sequela infinita di primi piani inespressivi conditi da frasi senza alcun senso logico unita alla freddezza dei due protagonisti - ma questi due staranno davvero insieme!? Perchè credo bacerebbero con più trasporto anche il più repellente degli animali presente sul globo - rende il tutto soltanto terribilmente noioso.
Ma al peggio non c'è mai fine, e così, una volta esploso lo scandalo della gravidanza di Bella, si da inizio alla supposta parte drammatica della pellicola, che dovrebbe culminare con un'epica - e telefonatissima - battaglia tra vampiri e licantropi in parallelo al momento del parto della fresca sposina, e che invece finisce per essere una sorta di supplizio ritmato dall'aumentare del trucco per rendere la Stewart sempre più emaciata, schiacciata dal peso di questa creatura insolita e già praticamente leggendaria nata dalla sua unione con Edward - che passa il tempo a darsi la colpa di tutto senza combinare una fava di niente, senza contare lo scarsissimo appeal mascolino che esprime, specie accanto a quello che, in teoria, dovrebbe essere il suo rivale in amore Jacob, già di suo non proprio un esempio di machismo duro e puro -.
Fortunatamente, ad un certo punto, tutto finisce, ovviamente nessuno si fa la bua e l'amore - ma quello vero vero vero e forte forte forte di Edward e Bella - trionfa come solo nelle migliori famiglie.
Ed è a quel punto che succede.
Ci si rende conto che ad attenderci c'è ancora la parte due.
E allora non si è più tanto felici.
Se non per il fatto che il 2012 ha già un film candidato al titolo di peggiore dell'anno.

MrFord

"La bella canzone di una volta faceva sorridere la gente, 
che la trovava divertente e la cantava a voce alta. 
La bella canzone di una volta faceva commuovere la gente, 
che la ascoltava attentamente e la imparava in una volta. 
La canta il commissario al lestofante, 
la fischia il portinaio spazzolante 
mentre la balia col poppante 
la trova molto interessante. 
L'accenna il giovanotto dal barbiere
e dopo un po' la sa tutto il quartiere
che pullula di mille capinere, e a mezzanotte c'è l'oscurità."
Elio e le Storie Tese - "La bella canzone di una volta" -

lunedì 28 novembre 2011

Ken Russell (1927 - 2011)

So long, Tommy-boy.

MrFord

"He's a pinball wizard
there has to be a twist.
 a pinball wizard,
s'got such a supple wrist."
The Who - "Pinball wizard" -

Friday night lights Stagione 1

Produzione: Nbc
Origine: Usa
Anno: 2006
Episodi: 22



La trama (con parole mie): a Dillon, in Texas, si vive e sopravvive come in ogni cittadina della provincia americana. La differenza la fanno i Panthers, squadra di football del liceo locale e trampolino di lancio per quelli che potrebbero essere i futuri talenti dell'Nfl.
All'esordio come allenatore c'è Eric Taylor, appena trasferitosi in città con la moglie Tami e la figlia Julie, al primo incarico come head coach di un team, sul quale pesano l'ingombrante presenza di Buddy Garretty, finanziatore principale dei Panthers, e quella dell'intera comunità, legatissima alle imprese agonistiche dei giovani giocatori.
Punto fermo per il coach è il quarterback Jason Street, praticamente il figlio che Taylor non ha mai avuto, leader in campo e fuori: con lui spiccano i runningback "Smash" Williams e Tim Riggins e la giovane riserva Matt Saracen.
Quando, alla prima della partita della stagione, Street sarà costretto ad abbandonare il campo da gioco a causa di un infortunio, toccherà proprio a Saracen prendere in mano la squadra, con la benedizione di Taylor.



Smaltita - più o meno - la delusione per American horror story, Cannibale si è clamorosamente preso la sua rivincita introducendomi - ringrazia sentitamente anche Julez - ad una serie che pare l'archetipo della materia fordiana per eccellenza, e che non era ancora entrata a far parte del novero delle preferite del sottoscritto: Friday night lights - inizialmente battezzata High school team - è stata una vera e propria bomba dall'inizio alla fine di questa più che ottima stagione d'esordio, conquistando da subito uno spazio nel mio cuore di spettatore con il suo giusto equilibrio tra drama e sport, una scrittura ed un lavoro sulla costruzione dei personaggi splendido, uno stile di ripresa che ricorda quello della mia amata The Shield ed un'ambientazione da confine che pesca nell'immaginario Usa da frontiera e losers allo sbando, grandi amori e grandi sogni accanto ad altrettanto clamorose cadute.
Ma la cosa che ha reso già dal pilota Friday night lights un cult assodato è stato l'ottimo rapporto tra l'onestà delle vicende e la capacità delle stesse di entrare in contatto con l'audience, anche grazie ad un cast semplicemente perfetto che da corpo e anima a personaggi a tutto tondo: dal solido Eric Taylor, coach duro eppure paterno alla sua inseparabile moglie Tami, dal timido Matt Saracen al potenzialmente autodistruttivo Tim Riggins - ed anche qui ho trovato il Sawyer della situazione, ovviamente il preferito del sottoscritto nonostante la cotta che Julez ha coltivato per il personaggio dall'inizio fino quasi alla conclusione della stagione -, dallo spaccone Smash al golden boy Jason Street, tutti i protagonisti risultano credibili, e crescono, con i loro errori e le loro esperienze, formandosi ed acquistando sempre più spessore episodio dopo episodio.
Non abbiamo di fronte esperienze eccezionali, storie grandiose, eppure le vicende dei membri dei Panthers e delle persone che stanno loro accanto risultano grandi proprio nel loro essere quotidiane, guadagnate, giocate sul filo e fino all'ultimo secondo come un'indimenticabile partita di football - sport che, pur non seguendo dai tempi dei Miami Dolphins di Dan Marino, mi ha sempre fatto impazzire: se non l'avete fatto, a tal proposito, concedete una visione anche al tostissimo Ogni maledetta domenica -.
Inoltre, all'emozione e all'immediatezza, la serie aggiunge quel tocco di magia che permette allo spettatore di tornare ai tempi del liceo, in cui tutto pareva possibile ed il futuro era - o si sentiva - praticamente nelle mani di chi lo costruiva giorno per giorno senza però dimenticare quanto l'esperienza della maturità possa essere fondamentale nella nostra formazione come individui - in questo senso, il coach Taylor e sua moglie risultano pressochè perfetti, quasi fossero i genitori non soltanto di Julie, ma degli altri personaggi e dell'audience stessa, che trova in loro il sostegno anche e soprattutto nei momenti di maggior tensione di questi ventidue incredibili episodi.
Certo, quest'anno ci sono state la scoperta di Misfits e l'affermazione di Game of thrones, così come l'incredibile esplosione di Romanzo criminale: eppure un insieme di emozioni costante come quello garantito da Friday night lights dalla prima all'ultima puntata non l'avevo ancora provato.
Merito, forse, di una semplicità che si avvicina più alla vita che viviamo ogni giorno, e sentiamo nostra anche quando potrebbe non piacerci, e ci spinge, in un modo o nell'altro, a lottare per lei, sempre, come in attesa di una vittoria che bramiamo, di cui abbiamo bisogno come dell'aria, per mostrare al resto del mondo che siamo qui, e siamo vivi.
"Chi ha cuore e coraggio, non perde!", è il motto dei Dillon Panthers.
Certamente a Friday night lights non mancano nè l'uno, nè l'altro.
Non mancano ad Eric Taylor, che è solido come una roccia, e sulle spalle porta tutto il peso della pressione di questa piccola, non sempre facile, città. E protegge i suoi ragazzi, come figli.
Non mancano a Tami Taylor, perchè accanto ad un grande uomo, c'è sempre una grande donna. E tutta la forza del coach passa dalla saggezza di una compagna con palle e fascino da vendere.
Non mancano a Matt Saracen, che da riserva quasi invisibile diviene la star della squadra riuscendo a mantenere la dolcezza dei campioni silenziosi. Senza contare che esce con la figlia del coach, mica roba da poco.
Non mancano a "Smash" Williams, che da fuoriclasse impara a conoscere le proprie debolezze, per maturare e diventare grande forse addirittura prima dei suoi compagni.
Non mancano a Jason Street, che da protagonista assoluto finisce a dover ripartire da zero, e reinventarsi una vita intera. E con la forza della passione per lo sport che ama, a dimenticare rabbia e frustrazione.
Non mancano a Tim Riggins, che da sbandato dedito ad alcool, botte e ragazze rinsalda il legame con il fratello e nella mancanza di una figura paterna si riscopre un futuro padre molto migliore di quanto il suo sia mai stato.
Non mancano a Dillon, che nello sperduto panorama di un Texas troppo grande, tra voci e maldicenze, amarezze e delusioni, trova nella sua squadra un simbolo, una speranza, un sogno.
"Chi ha cuore e coraggio, non perde!", è il motto dei Dillon Panthers.
E chi vince non dimentica mai quante sconfitte ci sono volute per arrivare in cima.


MrFord


"You can take me outside
you can take me apart
you can take me upstairs
you can take me to hear
you made me love you when
you thought you were so smart
don't try to stop me when
you told me to start."
Elvis Costello - "Inch by inch" -



domenica 27 novembre 2011

Alive - Sopravvissuti

Regia: Frank Marshall
Origine: Usa
Anno: 1993
Durata: 120'



La trama (con parole mie): siamo all'inizio degli anni settanta, ed una squadra di rugby proveniente dall'Uruguay viaggia verso il vicino Cile per un impegno sportivo su un aereo noleggiato per l'occasione in compagnia di amici e parenti.
A causa di un errore di valutazione del pilota, il velivolo precipita nel cuore delle Ande: sopravvivono allo schianto più di venti tra i passeggeri, che dovranno fronteggiare il clima, la malnutrizione e le ripercussioni delle ferite riportate nella speranza che qualcuno possa giungere a salvarli.
Quando diverrà certezza il timore che i soccorsi non giungeranno, due dei giocatori della squadra, i giovani Roberto Canessa e Nando Parrado, nutrendosi con la carne dei morti nello schianto, attraverseranno le montagne per cercare aiuto e salvare i compagni sopravvissuti.



Esistono alcune pellicole cui si finisce per restare clamorosamente legati nonostante non appartengano certo a quelle che faranno la Storia del Cinema: Alive, nello specifico, è uno dei pochi ricordi ancora intatti che ho del periodo passato tra la fine delle scuole medie e l'inizio del liceo.
Sono ancora vive nella mia memoria, infatti, la classica uscita mista in cui si sperava, alla fine, di limonare duro con qualche vicina di banco che non si sarebbe mai ammesso rientrasse nei nostri gusti, il mio compagno di classe Mirko, che già allora - sarà stato il suo metro e novanta, saranno state la giacca e la cravatta che portava sempre - fu scambiato per il padre accompagnatore, e gli echi di questa reale vicenda - narrata con una notevole fedeltà dal regista  - che portavo in me, memore dei racconti di mio padre e del romanzo scritto da uno dei sopravvissuti che ancora oggi trova spazio nella mia libreria.
Così, rivederlo con Julez che per la prima volta assisteva al racconto dei sopravvissuti di uno dei disastri aerei più noti della storia dell'aviazione civile è stato come sfruttare una macchina del tempo, con la certezza - sicuramente più confortante - che, in un modo o nell'altro, avrei limonato di sicuro senza troppi patemi d'animo prima, dopo o durante la visione.
Tornando al film, e messo in chiaro che si tratta di un'opera decisamente retorica e televisiva, occorre sottolineare ancora una volta la grande fedeltà che regista e sceneggiatori hanno mantenuto rispetto alla maggioranza degli eventi legati alle vicende dei sopravvissuti, dalla valanga che li sorprese, alle difficoltà per i feriti, fino al tabù che da titolo al romanzo e che costituisce uno dei cardini dell'intera vicenda nonchè uno dei principali motivi per i quali oggi è ancora possibile parlare di chi riuscì ad uscire vivo da quell'inferno di neve: la scelta di nutrirsi della carne dei morti, unico mezzo di sostentamento tra montagne in grado di mettere alla prova anche alpinisti esperti ed equipaggiati al massimo.
A questo proposito, è curioso notare quanto l'impronta data all'intera pellicola sia quella di un film incentrato sull'importanza della fede mentre, al contrario, credo che l'impresa di Canessa e Parrado sia figlia dell'incrollabile volontà di due uomini capaci di riuscire in una traversata che, nelle condizioni in cui erano - vestiti di fortuna, un sacco a pelo ricavato dalle imbottiture dei sedili dell'aereo, scorte di carne tagliata dalle vittime dello schianto - è razionalmente associabile alla fantascienza pura.
In questo senso la visione - tutto tranne che memorabile - può risultare comunque interessante e stimolare riflessioni rispetto ad una situazione estrema come quella che vissero i sopravvissuti all'incidente: personalmente, mi trovo completamente in linea con la condotta di Nando Parrado, che attesa la morte della madre e della sorella è il primo a farsi promotore dell'idea di nutrirsi della carne delle vittime in modo da avere l'energia necessaria per partire e cercare aiuto.
In fondo, la volontà di vivere - e sopravvivere - andrebbe ben oltre una semplice convinzione sociale o religiosa: in fondo, non basterebbe - e non è bastato - sedersi a pregare per attraversare le Ande.
Non c'è dio che tenga.
Sono stati due uomini, a farlo.
Con mezzi di fortuna, pochissimo cibo, il rischio di morte ad incombere sulle loro teste e due palle grosse come una casa.


MrFord



"I will survive
oh as long as i know how to love
I know I'll stay alive
I've got all my life to live
I've got all my love to give."
Gloria Gaynor - "I will survive" -

sabato 26 novembre 2011

Oltre le regole - The messenger

Regia: Oren Moverman
Origine: Usa
Anno: 2009
Durata: 113'



La trama (con parole mie): Will Montgomery, sergente maggiore decorato dopo essere sopravvissuto ad una missione in Afghanistan salvando alcuni dei suoi compagni, viene rispedito negli Usa in convalescenza per essere assegnato, negli ultimi mesi del servizio, alla sezione che provvede - prima che stampa, tv e chiunque ne abbia la possibilità lo faccia prima dell'esercito - ad informare le famiglie dei caduti dando loro la notizia che non vorrebbero mai ricevere.
Suo partner sarà il capitano Tony Stone, veterano della prima Desert Storm, ex alcolista ed ormai abituato ad un lavoro che, certo, non è il più desiderato tra i soldati - e non solo -.
Will avrà modo, nei mesi che lo vedranno impegnato accanto all'insolito ufficiale, di riflettere sul suo futuro, sul passato e sul ricordo lasciato dalla sparatoria che l'ha reso un eroe agli occhi della patria, ma non ai suoi.




A volte ci sono pellicole che restano nel cassetto per anni, prima di essere scoperte.
E a volte finisce che le stesse, passando sullo schermo, si rivelano essere visioni assolutamente interessanti.
E' quello che è capitato con Oltre le regole, un fulmine a ciel sereno nonchè una delle riflessioni più lucide, sentite e potenti sulla guerra e soprattutto sulle sue conseguenze rispetto a chi l'ha vissuta sulla pelle che abbia visto negli ultimi anni: neppure The hurt locker - pur mostrando le palle come poche altre pellicole del genere nel passato recente della settima arte - è riuscito, a mio parere, a descrivere in modo così profondo senza di contro eccedere in facile retorica il segno della guerra sui soldati come l'opera di Oren Moverman, che azzecca uno script da leccarsi i baffi e lo affida a due protagonisti in stato di grazia - in particolare Woody Harrelson, ormai un vero e proprio eroe nei territori fordiani - in grado di dare volto e cuore ad un disagio profondo e radicato nell'anima non soltanto di chi al fronte lotta per la vita, ma anche e soprattutto di tutti quelli che, a casa, vivono ogni giorno in attesa sperando di non ricevere la visita di uomini come Stone.
La triste galleria delle reazioni delle famiglie alla notizia della morte dei loro cari resta una parte decisamente coinvolgente della pellicola, e dai pianti disperati alla rabbia - ottimo il cammeo di Steve Buscemi -, dall'equilibrio allo sgomento è difficile rimanere impassibili di fronte alle manifestazioni di un dolore che, per quanto messo in conto, non potrà mai essere vissuto senza conseguenze.
Ma è quando l'attenzione si sposta sui due protagonisti e sulle loro cicatrici interiori che il film compie la vera e propria svolta: i demoni che Stone tiene a bada con il suo gigionismo da cinico e Will con il silenzio e la musica a tutto volume a fare da colonna sonora ad una vita immaginata accanto a quella che era la donna che forse avrebbe dovuto sposare o alla vedova che sogna potrebbe diventare una compagna inattesa e da scoprire divengono lo specchio entro il quale confrontarsi con se stessi, i propri perchè ed il segno lasciato da una scelta che può essere profondamente personale ma che si lega indissolubilmente all'esterno - famiglia, società, amici, nazione - quasi annullando con il suo peso l'individualità di chi la compie, sia essa dettata dalla necessità che dal reale desiderio di essere al fronte a battersi per un ideale "o per un amore finito male".
La gestione, inoltre, del progredire del rapporto tra Will e Tony così come -  e soprattutto - tra Will e Olivia risulta a dir poco esemplare, asciutta e profondamente sincera, per nulla compiaciuta o orientata verso i più scontati dei confronti o - peggio - dei finali telefonati: l'approccio del regista, in questo senso, preserva lo spettatore dalla consueta sindrome antiammereganata che spesso e volentieri trova terreno fertile in questo tipo di Cinema, e permette all'opera di guadagnare ulteriormente spessore, diventando a tutti gli effetti una pellicola non tanto "di" guerra quanto "sulla" guerra, e ancor più sulle sue vittime, siano esse cadute o inevitabilmente, inesorabilmente destinate a sopravvivere.
Tuttavia Moverman non abbandona mai davvero la speranza - cosa che, al contrario, accade alla Bigelow in The hurt locker - e attraverso il racconto di Will rispetto al suo primo periodo dopo lo scontro che gli è costato il ritorno negli Usa e la fama di eroe esplode uno dei suoi colpi migliori, mostrando quanto la volontà di vivere - e non, ricordando Montale, il suo male - sia sempre presente, per Natura, nella nostra umana connotazione.
Con tutti i nostri limiti, le nostre ferite, e i nostri morti.
Perchè, e guai a dimenticarselo, piacevole o terribile, quella che viviamo da queste parti è sicuramente una guerra.

MrFord

"Hanno portato a casa
le loro spoglie nelle bandiere
legate strette perchè sembrassero intere."
Fabrizio De Andrè - "La collina" -



venerdì 25 novembre 2011

Last friday night

La trama (con parole mie): facendosi largo con le unghie, i denti e i cazzotti nel bel mezzo della melma distribuita nelle sale del Bel Paese, un Cinema in grado di regalare qualche speranza - sia in materia di blockbusteroni che di opere d'essai - pare riuscire a trovare posto nel cuore dell'ennesima settimana fatta di comici incapaci di far ridere e proposte al limite del ridicolo.
Tanto da portare me e il Cannibale ad essere quasi sempre d'accordo.
Attenzione.
Ho detto quasi.
"Forza, Cannibale, stai al passo! Almeno ti insegno a dare qualche colpo!"
Anche se è amore non si vede


Il consiglio di Cannibal: anche se è un film non si vede
Mai sopportati Ficarra e Picone. Già il fatto che provengano da Zelig e Striscia la notizia non depone a loro favore, ma per me sono tra i comici meno comici persino all’interno di questi ben poco esilaranti programmi. I loro film finora me li sono risparmiati alla grande e penso che la tendenza continuerà anche con questo. Sebbene credo che nemmeno a Ford facciano impazzire, per questa volta faccio il bravo e glieli lascio tutti e due, anzi tre: Ficarra, Picone e pure una picconata alla Cossiga!
Il consiglio di Ford: non lo vedo neanche per sogno
Incredibilmente, mi trovo perfettamente d'accordo con Cannibale: ho sempre detestato Zelig, Striscia ed i comici che non fanno ridere. Ficarra e Picone compresi.
Quindi cambio la picconata con una bella bottigliata che rifilo in testa ai due protagonisti di questa immondizia "cinematografica".

"Riusciamo a mettere d'accordo perfino Ford e Cannibale, così abbiamo deciso di prendere il torpedone per andare ad Aiazzone a fare ammenda!"

Real Steel


Il consiglio di Cannibal: lo lascio a Ford
Uh, Ford. Lo so che vai in brodo di giuggiole per Hugh Jackman.
Io sinceramente non ho mai capito né come faccia a fare l’attore, né come faccia a essere considerato un sex-symbol, ma tant’è.
L’unico motivo per cui vedere questa porcata sportivo-fantascientifica mi sembra allora il gradito ritorno di Evangeline Lilly, la Kate di Lost assente da un po’ di tempo dalle scene…
Il consiglio di Ford: un altro round, ancora un altro round
Questo è stato pubblicizzato un pò ovunque come il Rocky dei robot, quindi non posso che tuffarmici senza neppure pensarci, sperando che, al contrario del soltanto discreto Warrior, possa riportarmi alle atmosfere magiche del leggendario Balboa.
E sì, Cannibale. Hugh Jackman è un vero fordiano: è australiano, si allena come un porco per mantenersi il fisico e nonostante alcuni film di merda cui ha prestato il volto mi pare un tipo assolutamente pane e salame.

"E così è questa la famigerata Director's cut di Black swan con Cannibale!"
 
Happy Feet 2 in 3D


Il consiglio di Cannibal: nooooooooooooooooooooooooooooo
Salvo eccezioni, odio i sequel e odio il 3D. Se aggiungiamo che da Happy Feet 1 mi sono già tenuto alla larga, le possibilità che veda volontariamente questo film sono ridotte al lumicino quanto quelle del Milan contro il Barcellona, tiè! E no, Ford, anche se mi dai della ballerina per via del mio amore per Black Swan, con i pinguini non ce bello!!
Il consiglio di Ford: unhappy Ford
La penuria in sala mi porta ad essere di nuovo d'accordo con il mio antagonista: detesto il 3D, il primo Happy feet mi annoiò a morte - e mi fece anche discretamente cagare - e non ho la minima intenzione di sopportare anche questo.
E tranquillo, Cannibale: neppure se ti metti il tutù ti faccio ballare con 'sti pinguini! 


"Cannibale, siamo il nuovo corpo di ballo che ti affiancherà per Il lago dei cigni!"
 
Miracolo a Le Havre


Il consiglio di Cannibal: questo potrebbe essere interessante
Ford, ammetto la mia ignoranza e devo confessare di non aver ancora mai visto nessuno film del finlandese Aki Kaurismaki. Presto mi sa che cercherò di rimediare, mi attira in particolare L’uomo senza passato, ma anche questo suo ultimo sembra non essere male…
Il consiglio di Ford: miracolo in sala
Già ha del miracoloso l'ammissione delle sue lacune cinematografiche da parte del mio antagonista, inoltre vedere questo lavoro accolto universalmente come l'ennesimo colpo di genio che un regista incredibile e sorprendente ci ha regalato in sala è un regalo così grande che quasi quasi non ci credo.
Senza se e senza ma, andatelo a vedere.
Altrimenti vi prendo a bottigliate fortissime.
E tu sei il primo, Cannibale: corri a rivederti almeno almeno L'uomo senza passato, scellerato!

"Ecco come ci si riduce a non vedere film di Kaurismaki, Cannibale!"
  
Tower Heist - Colpo ad alto livello


Il consiglio di Cannibal: colpo a basso livello
Ben Stiller saran 10 anni che non azzecca più un film, Eddie Murphy forse quasi 30, ammesso e non concesso ne abbia mai azzeccato uno. Uniti insieme nella solita commedia all’ammericana potrebbero dare risultati ben poco di alto livello… il fatto che il film affronti (in che modo è tutto da vedere) la tematica della crisi finanziaria potrebbe però renderlo un minimo decente. Ho detto potrebbe. Così come Ford “potrebbe” essere una persona che ne capisce di cinema, ma probabilmente non lo è uahahah!

Il consiglio di Ford: colpo basso e basta
Soltanto quello scellerato del mio antagonista potrebbe anche solo pensare che un film fuori tempo massimo potrebbe salvarsi soltanto per un richiamo alla crisi economica.
Per quanto io abbia apprezzato le sue imprese eighties, ormai Eddie Murphy è clamorosamente alla frutta, e pare che anche Ben Stiller, ormai, abbia deciso di darsi alla macedonia.

"Eddie, guarda che l'ultima volta che gli hai rubato i giocattoli Cannibale se l'è presa un sacco!"


Inti-Illimani - Dove cantano le nuvole


Il consiglio di Cannibal: dove cantano le nuvole, ma non io
Pur potendo apprezzare anche il loro impegno politico, la musica degli Inti-Illimani per me è qualcosa di inascoltabile, quindi col piffero (come quello presente nelle loro canzoni) che mi becco un intero documentario su di loro. Sucatelo te, Ford!
Il consiglio di Ford: el pueblo unido jamas serà vencido
L'impegno politico di questa band storica è indiscusso, ma effettivamente un documentario intero su quest'icona della musica latino americana e non solo rischia di essere un pò troppo pesantuccio anche per me.
Certo, a fronte delle numerose uscite desolanti, potrebbe quasi piazzarsi al terzo posto nella classifica di gradimento della settimana.
Sempre che non contiate di vedere il Cannibale con indosso la sua tutina da Cigno nero nella versione director's dell'ultimo lavoro di Aronofsky.

"Che ci fa il Cannibale nel mio specchio!?!? Devo eliminarlo!"

Breezy

Regia: Clint Eastwood
Origine: Usa
Anno: 1973
Durata: 102'



La trama (con parole mie):  Frank Harmon è un uomo solitario di mezza età, benestante, in gran forma e legato alla sua indipendenza quanto alla fama di donnaiolo: un tipo tutto d'un pezzo, educato e severo.
Breezy è una giovane hippy alla scoperta del mondo in cerca dell'oceano e della prima, grande occasione di vivere un amore forte e ricambiato.
Quando la giovane chiede per caso un passaggio all'uomo, inizia un rapporto che passa dalla diffidenza, all'amicizia per divenire infine una vera e propria storia: un amore non semplice da accettare, minato dai dubbi di Frank se una ragazza con meno della metà dei suoi anni potrebbe essere la compagna giusta per lui.
E soprattutto, se lui potrebbe essere quello giusto per lei.




Quando alle porte di casa Ford bussa Clint Eastwood è sempre un piacere, a prescindere dal fatto che sugli schermi passino Capolavori come Million dollar baby o Gran Torino o tamarrate eighties dal sapore reaganiano come Firefox.
In questo caso la risposta sta nel mezzo, con un film d'annata - il secondo da regista dell'ex attore dalle due espressioni, con o senza il sigaro - che vide il vecchio Clint cominciare a farsi le ossa - e mostrare il suo talento - dietro la macchina da presa: una storia onesta, solida, con un William Holden in grande spolvero, che tocca il tema dell'amore in età avanzata - argomento che lo stesso regista analizzerà con un piglio decisamente più profondo più di vent'anni dopo con lo splendido I ponti di Madison County - e trova il tempo di regalare più di un sorriso soprattutto nella prima parte, quando si assiste al progressivo avvicinamento di Breezy al ruvido Frank - anche in questo caso, si notano i semi di quello che sarà uno dei tratti distintivi della filmografia eastwoodiana: il rapporto tra maturità e giovinezza -, fatto di battute e provocazioni provenienti soprattutto da Frank stesso.
Certo, non si tratta di qualcosa di memorabile, o di uno script rivoluzionario, ma l'intenzione del regista pare essere quella di raccontare una storia avvicinandola quanto più possibile alla realtà e sottolineando i suoi aspetti più riconducibili al quotidiano, concedendosi anche una sequenza quasi autoriale - la prima notte d'amore di Frank e Breezy - filtrata attraverso il consueto "invisibile" tocco che negli anni ho imparato ad apprezzare quasi più di ogni altra qualità dell'ex Ispettore Callahan in veste di regista.
Ottime parole andrebbero spese anche per Holden, che con lo stile impeccabile che distingueva i protagonisti maschili del genere sentimentale - e non solo - negli anni cinquanta del periodo d'oro dei grandi studios vive una seconda giovinezza neanche fosse lo stesso Frank, catalizzato da una sfida - come nel corso della vicenda potrebbe intendersi l'arrivo di Breezy ed il nascere della sua storia con lei - che lo porti a mostrare al pubblico che rimettersi in gioco e vivere secondo i propri desideri può portare a scoprire quanto sia importante per tornare a provare un brivido che si pensava morto e sepolto sotto anni di muri alzati rispetto all'esterno.
Certo, i detrattori del Cinema Classico - che sia per struttura o età anagrafica - potrebbero storcere il naso di fronte ad uno dei lavori minori del granitico Clint, eppure soltanto il pensiero di certe schifezze zuccherose che girano al giorno d'oggi in sala dovrebbe senza fatica rivalutare la posizione di commedie romantiche come questa, divertenti, solide e sensate come di questi tempi - tranne alcuni rari casi - ci si sogna di confezionare.
E quell'ironico "non durerà neppure un anno", che Frank pare pronunciare quasi ad esorcizzare l'idea del tempo che incombe e del timore naturale all'idea di scommettere tutto quando pare che sia troppo tardi è un monito imperfetto e pieno di vita ad osare, non importa quale sia il prezzo.
Un monito che Clint pare aver raccolto completamente, almeno in ambito cinematografico.
Ed i risultati si sono visti, eccome.

MrFord

"Forever young
I wanna be
Forever young
Do you really want to live forever,
forever, and ever?"
Jay-Z - "Forever young" -





giovedì 24 novembre 2011

The woman

Regia: Lucky McKee
Origine: Usa
Anno: 2011
Durata: 101'



La trama (con parole mie): Chris Cleek e la sua famiglia sono un esempio della perfetta provincia americana.
Lui si muove nei meandri degli affari immobiliari, la moglie Belle fa da casalinga modello pronta a non parlare troppo, Peggy è la tipica adolescente un pò chiusa ma molto brava a scuola, Brian l'uomo di casa ed il prediletto di papà e Darlin' la più piccola, innocente e vivace.
Un giorno, mentre Chris è a caccia, scopre che una donna vive alla stregua di un animale selvaggio nella foresta, senza saper parlare o avere un'idea di cosa sia una società "perbene": così, decide di catturarla e tenerla imprigionata nella sua cantina in modo da educarla progressivamente agli usi che si convengono nel nostro mondo.
Complice un segreto di Peggy, però, questo incontro/scontro con la Natura non andrà proprio come l'uomo si aspetta.




Ci sono momenti, nel corso delle nostre vite, in cui l'istinto viene lasciato libero, esplodendo in una cascata di sensazioni, più che di sentimenti, in grado di riempirci e svuotarci ad un tempo, far correre al massimo quel brivido che passa lungo la nostra spina dorsale prima di fermarsi alla base della testa, drizzandoci i peli sulla nuca: momenti come il primo morso di un pasto atteso, un orgasmo che non si riesce più a contenere, l'ultimo sorso di una bibita gelata nel pieno di un pomeriggio estivo, la fatica piacevole alla fine di un allenamento, "una bella cagata", come direbbe il vecchio che Vinz, Hubert e Said incontrano nel bagno pubblico de L'odio.
L'escalation finale di The woman può essere paragonabile, cinematograficamente parlando, a quella sensazione di piacere viscerale di cui i momenti appena accennati sono esempi lampanti.
E non solo.
Perchè dal primo all'ultimo minuto, la pellicola di Lucky McKee trasuda questo anelito oltre i limiti, e per lo stesso si batte, con le unghie e con i denti - soprattutto questi ultimi - per poter continuare a liberare il suo grido, a mostrare che c'è un cuore che batte, un respiro che brama l'affanno, mani pronte ad affondare nella terra e nella carne, un ventre pronto ad accogliere una nuova vita.
Dal primo all'ultimo minuto, The woman si mostra come una delle opere più femministe e toste dai tempi di Lezioni di piano e Holy smoke, e nella lotta estrema e terribile che vede contrapposta la Natura della prigioniera e la "buona" società del suo carceriere mostra - con grande intelligenza, oltre ad una forza assolutamente materiale - tutto l'orgoglio e la passione che il "sesso debole" ha messo in migliaia di anni di storia e continua ogni giorno a porre come baluardo a fronte di un maschilismo bieco e violento, che consuma nel sesso - o nel desiderio dello stesso - tutta la sua acredine e la gelosia verso quella che è, a tutti gli effetti, la creatura che più si avvicina alla perfezione che esista al mondo.
Incarnando la passione selvaggia dell'istinto primordiale per eccellenza - quello dell'essere madre, oltre che donna -, la protagonista - una strepitosa Pollyanna McIntosh -, così come Peggy e Belle, conduce lo spettatore attraverso un viaggio terrificante nella mente di Chris - menzione anche per Sean Bridgers, alle prese con un personaggio decisamente scomodo e non facile - e di suo figlio Brian, esporando territori che passano dalle parti di Haneke per giungere all'escalation gore conclusiva, narrata splendidamente e resa - nonostante l'inequivocabile violenza - un atto di emancipazione straordinario più di cuore che non di pancia.
Ma di pancia e solo di pancia ci si dovrebbe perdere nella visione di questo sorprendente film - uno dei migliori nel suo genere degli ultimi anni, simbolo di una finalmente più presente sugli schermi, pur se non italiani, corrente di horror autoriale -, lasciandosi cullare dalla clamorosa colonna sonora e da una vicenda in parte già sentita ma mai portata sullo schermo - specialmente da un regista di sesso maschile - con questo coraggio e questa forza.
A prescindere dalla naturale inclinazione a parteggiare per la prigioniera, resta evidente quanto coinvolgente riesca a rendere lo script McKee, scegliendo di non cadere nel facile ed eccessivo ricorso alla violenza sbattuta in faccia all'audience - anzi, spesso e volentieri giocando d'astuzia e sottrazione per mostrare il meno possibile, o lasciare allo spettatore il disagio di immaginare - per prendere il largo con un finale letteralmente esplosivo, legato a doppio filo a quella sensazione di liberazione - profondamente fisica, ma non solo - di cui parlavo sopra: e la chiusura, se vogliamo forse perfino troppo simbolica, pare la conclusione perfetta di una battaglia che vede la protagonista scontrarsi non soltanto con l'Uomo, ma anche con chi se ne rende vittima e nell'accettazione della sua condizione involontariamente complice - il faccia a faccia finale con Belle ha la stessa intensità di quelli con Brian e Chris -.
Vorrei, onestamente, essere in grado di rendere tutta la prorompente fisicità di questo lavoro, ma forse l'ideale sarebbe che a parlarne fosse proprio una donna, con la pulsante sensibilità di cui noi dell'altra metà del cielo saremo sempre sprovvisti: perchè questo film è una vera forza della natura, un concentrato di istinti e voglia di vivere una libertà ancestrale, e crescere nel proprio ventre quella del futuro.
E nessuno più di una Donna è in grado di comprendere e decifrare questi sentimenti confusi alle sensazioni.

MrFord

"And the thing that gets to me
is you'll never really see
and the thing that freaks me out
is I'll always be in doubt.
It is a lovely thing that we have
it is a lovely thing that we
it is a lovely thing, the animal
the animal instinct."
The Cranberries - "Animal instinct" -

mercoledì 23 novembre 2011

L'ospite inatteso

Regia: Thomas McCarthy
Origine: Usa
Anno: 2007
Durata: 104'



La trama (con parole mie): Walter è un tranquillo professore che da vent'anni ripete le stesse lezioni in un università del Connecticut, limitandosi ad apporre la firma su saggi che non ha neppure scritto, sognando di imparare a suonare il pianoforte in memoria della defunta moglie.
Quando, dovendo presenziare ad un seminario, si troverà a tornare nel suo vecchio appartamento di New York, Walter farà uno degli incontri più importanti della sua vita: Tarek e Zainab, due giovani immigrati non in regola, infatti, sono stati ingannati da un intermediario che ha concesso loro in affitto proprio l'alloggio da anni inutilizzato del professore.
I tre, ed in particolare Walter e Tarek, coltivano da subito un legame d'amicizia unico con le radici affondate nell'incontro tra la musica classica tanto amata dal primo ed i ritmi afro del secondo: quando, per una casualità, il giovane verrà arrestato e la minaccia dell'espulsione dagli States si farà incombente, Walter cercherà in tutti i modi di aiutare il ragazzo.



Devo ammetterlo: mi sento in colpa per avere lasciato da parte Thomas McCarthy per così tanto tempo.
Fortunatamente, l'approdo sugli schermi di casa Ford di Win win ha riportato in auge questo talentuoso volto del panorama alternativo statunitense, ed ha immediatamente indotto a recuperare la pellicola "di mezzo" della sua filmografia persa nel corso degli ultimi anni, quest'ottimo The visitor che, in una certa misura, rappresenta la prova più matura dell'autore del New Jersey, alle prese con una produzione decisamente più importante rispetto al suo esordio dietro la macchina da presa - The station agent, già citato a proposito della sua ultima fatica, giusto ieri - ed una tematica certo non facile, quella dell'immigrazione.
Sfruttando il misurato Richard Jenkins nel ruolo di Walter, infatti, McCarthy racconta con la sua ormai caratteristica onestà di scrittura una storia "sottovoce" legata a doppio filo alla scoperta dell'altro, di se stessi e alla paura serpeggiante dilagata negli States - e non solo - dopo l'undici settembre, tradotta in una denuncia che non grida allo scandalo o cerca lo sconvolgimento dello spettatore, ma sottolinea quanto, a volte, i piccoli drammi possano essere terribili quanto i grandi, da una parte e dall'altra di una frontiera.
Il tutto mantenendo una leggerezza quasi da commedia legata a doppio filo alla rinascita di Walter, che attraverso il passaggio dal pianoforte allo djembe e dalla musica classica a Fela Kuti riscopre se stesso neanche fosse il Lester di American beauty, tornando a vivere per la prima volta dopo un letargo volontario e noioso durato fin troppi anni, se non addirittura da tutta la vita: la scelta di percorrere questa sorta di rivoluzione interiore attraverso i piccoli dettagli - il cambio della montatura degli occhiali, le pause pranzo al parco, le prime jam sessions con i musicisti di strada - è profondamente stimolata da Tarek e da sua madre, personaggio fondamentale nell'economia della pellicola - decisamente più di Zainab - che permette al protagonista di compiere un ulteriore passo in avanti e al film di cambiare marcia, spostando l'attenzione dello spettatore su una sorta di misurato dramma romantico in grado di fare da contrappeso alle vicende del giovane musicista in custodia presso l'immigrazione e sulla via di essere perduto nelle labirintiche pieghe della burocrazia e dell'indifferenza al confine con la quieta violenza degli ingranaggi della stessa.
Ancora una volta rispetto ad un lavoro di McCarthy, non lasciate che un'apparenza retorica possa influenzarne la visione: lasciatevi conquistare dal ritmo lento eppure deciso e da una vicenda che trailer e distribuzione potranno anche aver mascherato da commedia alternativa leggera ma che, in realtà, cela una realtà assolutamente credibile e per nulla buonista o consolatoria, che nel corso di tutta la durata conserva il suo pregio più grande proprio nel saper trasmettere un messaggio e sentimenti forti senza mai avere bisogno di alzare i toni e la voce, ma che avanza sottopelle come l'incedere dei tre tempi delle percussioni.
Un pò come tutto il Cinema di questo ancora troppo poco conosciuto regista: storie come potrebbero essere le nostre, di quelle che, a fronte di una realtà sempre più caotica - quella che vede le luci e i colori di Broadway illuminare sogni e aspettative sempre e solo "in grande" -, resistono con le unghie e con i denti, il cuore e la musica, i sentimenti ed i ricordi: e nell'immagine di Walter finalmente deciso a suonare lo djembe in metropolitana, proprio alla fermata di Broadway - perchè si dice che lì si facciano i soldi, a detta di Tarek - c'è tutta la magia di una vita "normale" che pare aver trovato il suo palcoscenico migliore.

MrFord

"You dey go your way, the jeje way
somebody come bring original trouble
you no talk, you no act
you say you be gentleman
you go suffer
you go tire
you go quench
me I no be gentleman like that."
Fela Kuti - "Gentleman" -

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