giovedì 31 marzo 2011

Free drink

Una nuova rubrica (con parole mie): Ebbene sì, dato che è un anno che il saloon è aperto, ho pensato che un giro gratis potrebbe essere una buona idea per confrontarci e conoscerci un pò meglio. 
Sempre filtrando il tutto attraverso il Cinema.

A seguito dell'idea folgorante di Vince, cui va il merito di questo tentativo, lancio una proposta a tutti gli avventori - occasionali o quotidiani - di questo spazio di bevute, film e chiacchierate.
Da oggi in poi dedicherò questa sorta di rubrica ai post dedicati a pellicole suggerite da voi, che sarò ben lieto di (ri)vedere ed osannare - o bottigliare - citandovi spudoratamente come ispiratori/trici del post stesso.
Per chi vorrà, inoltre, sono pronto ad introdurre l'idea della recensione a quattro mani.
Direi che ho detto tutto, quindi, se e quando volete, basterà proporre, ed io sarò qui, pronto a raccogliere ogni vostra sfida da grande - e piccolo - schermo.
Fatevi sotto, io sono pronto.


MrFord


"Tutti vogliono il mio freedrink però non sanno che
quando lo butti giù devi tenerlo giù
è questione di fegato avere lo stomaco che non hai tu
quando lo butti giù devi tenerlo giù
è questione di fegato avere lo stomaco che non hai tu."
J-Ax - "Free drink" -

Tifone

La trama (con parole mie): Il piroscafo Nan-Shan, in navigazione verso la Cina, è governato dal taciturno Capitano MacWhirr e diretto sulla costa per consegnare lavoratori cinesi di ritorno con le somme raccolte in mesi di fatiche. 
All'orizzonte incombe una tempesta, ed il secondo in comando, l'impulsivo e giovane Jukes, cerca di fare in modo che la rotta venga cambiata. Il Capitano, al contrario, deciderà di rischiare per poter arrivare a terra secondo i tempi stabiliti, attraversando il tifone che li attende. Chi avrà ragione?

Joseph Conrad, uomo dai mille mestieri e senza dubbio un lupo di mare così tosto da farsi la barba con La tempesta perfetta, è conosciuto dagli appassionati di Cinema almeno quanto da quelli di letteratura: è a lui e al suo Cuore di tenebra, infatti, che Coppola deve l'ispirazione per uno dei Capolavori più incredibili che la settima arte abbia mai prodotto, Apocalypse now.
Se non fosse per l'epoca certamente più vicina alla nostra, personalmente inserirei il cazzutissimo Joseph nel pieno del fervore romantico dello Sturm und drang, di cui, in qualche modo, questo romanzo breve è testimone perfetto.
Tifone, infatti, porta un bagaglio di tutte le caratteristiche che stimolavano anime e cuori in un periodo in cui il confronto impari e la possibilità di una gloria eterna - anche se intima - portavano giovani aspiranti artisti - e non solo - a buttarsi a capofitto nelle imprese più folli - fossero poi d'amore o avventura, poco importa - affinchè la Storia potesse portare almeno una traccia del loro passaggio.
MacWhirr e Jukes, antagonisti e compagni inseparabili, giocano una partita senza speranza contro la furia degli elementi, guidando il piroscafo e governando gli uomini che lo abitano - di passaggio o no - neanche fossimo in una pellicola di Herzog ante litteram, sferzati dalla potenza degli elementi eppure pronti a giocare la loro mano fino alla fine, quasi fosse un passaggio obbligato per la loro e la nostra esistenza, e l'alternativa di girarci attorno non fosse neppure da prendere in considerazione.
Il perfetto incastro fornito dai caratteri dei due protagonisti, inoltre, riesce a trasmettere al lettore una tensione anche maggiore delle perfette descrizioni nautiche e di quelle, quasi terrificanti, dei marosi che assediano il Nan-Shan: l'istintività spesso contraddittoria di Jukes, pronto a dialogare e a scontrarsi con qualunque membro dell'equipaggio - Capitano compreso - trova il suo perfetto contrappeso in MacWhirr, cui il tifone pare strappare le parole una alla volta mano a mano che l'impresa appare più vicina, così come il pericolo o la morte.
Una lettura breve ma incredibilmente intensa che è una dichiarazione d'amore quasi incontrollata all'oceano e alla Natura, elemento dominante e forza senza pari in grado di regolare le nostre esistenze sempre più di quanto noi non si possa immaginare, e regalarci un confronto con noi stessi e gli altri perfettamente reso dalle diverse interpretazioni dell'evento fornite dall'equipaggio nell'ultimo, incredibile capitolo della narrazione.
Non che ne dubitassi prima, ma passato questo tifone, la voglia di imbarcarsi con il Capitano Conrad è talmente forte da sfidare anche i venti più impetuosi.


MrFord


"Clouds of black cover the sea 
day turns into night
infinite darkness beckons me
no more sun, no more light."
Amon Amarth - "North sea storm" -

mercoledì 30 marzo 2011

The troll hunter

La trama (con parole mie): Un gruppo di studenti si mette alle costole di quello che viene presentato come un cacciatore d'orsi di frodo e che si rivela, in realtà, essere un emissario del governo norvegese addetto alla caccia ai troll, creature leggendarie confinate ai margini del mondo conosciuto. Le scoperte saranno incredibili, mozzafiato almeno quanto il paesaggio incredibile offerto dall'estremo Nord, e saranno riprese con tutta l'incertezza e la traballante tensione del mockumentary.

Da tempo giravo attorno a questo film, di cui avevo sentito parlare in rete grazie a quei passaparola che, delusione oppure no, negli ultimi mesi mi hanno dato la possibilità di avere un confronto con pellicole e registi di impatto memorabile, destinati a restare nel mio immaginario di spettatore di questo duemilaundici e, in alcuni casi, anche ben oltre.
Personalmente, come di recente ho avuto modo - anche se solo parzialmente - di descrivere rispetto a Paranormal activity, non ho mai amato particolarmente il mockumentary, più che altro perchè, nella maggior parte delle sue incarnazioni, produce inevitabilmente schifezze inenarrabili in pieno stile Blair Witch Project.
Certo, negli anni ci sono state anche piacevoli eccezioni - a loro modo, lo splendido District 9 ed il tamarrissimo ma clamorosamente divertente Cloverfield -, ma tendenzialmente, se si escludono i capisaldi del genere - mi torna in mente This is Spinal Tap - le delusioni sono state ben maggiori dei momenti cult di questo genere di cui tutto si può dire, tranne che sia facile da approcciare per un regista.
E invece, nonostante certo non si possa gridare al miracolo, Andrè Ovredal confeziona una piccola chicca di genere capace, almeno in parte, di farmi accantonare tutti i pregiudizi indirizzati a questo tipo di pellicole permettendomi di godere appieno di un'atmosfera a metà tra il survival horror e l'estatica meraviglia contemplativa tipica del Cinema autoriale, tanto da riportarmi alla mente, nelle parti dai tempi più dilatati di fronte all'immensità della Natura nel cuore dei fiordi, il visionario Valhalla rising.
Devo ammettere che, al principio, l'aura quasi mitica assunta dalla pellicola, unita all'atmosfera incredibile data da luoghi in cui non è certo l'Uomo a farla da padrone - per quanto diversi, e ad angoli opposti del mondo, mi hanno ricordato molto l'Australia -, mi hanno fatto pensare di essere di fronte ad una delle sorprese migliori di quest'inizio anno, che, occorre ammetterlo, si sta rivelando cinematograficamente molto generoso.
Superato lo smarrimento strabiliante della prima parte, il ritmo decisamente lento - nonostante la componente horror - e gli effetti inizialmente in bilico tra il trash grottesco e l'effettiva ricerca di inquietudine negli occhi dell'audience hanno riportato la pellicola ad una dimensione più terrena, umanizzandola progressivamente grazie alle sue imperfezioni ed al personaggio - azzeccatissimo - del cacciatore di troll Hans, selvaggio e fuori dagli schemi neanche fossimo nel pieno di una delle imprese impossibili targate Herzog.
Con l'ingresso nella caverna, poi - neanche fossimo precipitati in una sorta di nordico mito platonico - e la parte finale legata al gigantesco troll libero in un'immensa prateria di neve e roccia, la pellicola decolla completamente soprattutto a livello visivo, creando una suggestione da spettatore della fine del mondo - e di nuovo riportando alla mente il succitato Cloverfield e The mist - che perde di tensione soltanto nel finale improvviso e troppo secco, così netto nel suo sopraggiungere da dare quasi l'impressione, considerato il budget a disposizione del regista, che fossero finiti i liquidi per poter organizzare una chiusura dignitosa.
Un difetto, comunque, superabile, per una delle proposte nel suo genere più interessanti degli ultimi anni, in grado, soprattutto nel pieno di quel deserto algido, di fronte ad un paesaggio quasi lunare e alle urla terrificanti del gigantesco troll di fronte alla jeep del cacciatore, di trasportare lo spettatore nel cuore di una realtà che potrà essere filtrata attraverso la leggenda, ma che mostra tutta la potenza incontrastata di una Natura che ha regole che noi conosciamo soltanto in minima parte, e al cospetto della quale siamo così piccoli da scomparire, se non ci si avvicina abbastanza.


MrFord


"I once had a girl
or should I say she once had me
she showed me her room
isn't it good Norwegian wood?"
The Beatles - "Norwegian wood" -






 

martedì 29 marzo 2011

In cerca di Amy

La trama (con parole mie): Holden e Banky sono gli autori di un fumetto underground di grande successo, sempre in mostra alle conventions e sul punto di vedere realizzata una serie animata ispirata al loro lavoro. I due sono anche amici per la pelle, e condividono ogni aspetto della vita, dalle confidenze allo studio in cui creano le avventure dei loro albi, che è quasi una tana, un rifugio dall'esterno.
Tutto questo fino a quando nella vita di Holden entra Alyssa, ex cantante e giovane autrice lesbica per la quale il ragazzo perde la testa: sarà l'inizio della fine del mondo conosciuto fino ad allora dei tre protagonisti ma, forse, l'inizio di qualcosa di nuovo in grado di fare crescere ognuno di loro.

Ormai è risaputo che, in casa Ford, il buon vecchio Kevin Smith è protetto come un panda dal Wwf e portato in trionfo quasi fosse una di quelle mascotte grosse e pupazzoidi delle squadre sportive dei licei statunitensi anche quando si produce in lavori certo non memorabili - vedi Generazione X o Poliziotti fuori -. 
Quando, poi, capita anche che ci metta cuore e generosità emozionale, shakerando il tutto con un pò di sana volgarità spiccia, citazioni cinematografiche e amore per il fumetto - Clerks e Clerks 2, Zack&Miri make a porno - sfonda una porta già completamente spalancata.
Certo, In cerca di Amy è un film inusuale, per il nostro Kevinone, meno divertente ed in qualche modo più drammatico, se volete passarmi il termine, tecnicamente meno riuscito di altri, decisamente calato nella sua epoca - trasuda anni novanta da ogni fotogramma - e a tratti fin troppo spiazzante, eppure, terminata la visione e lasciatolo sedimentare da una notte di sano e profondo sonno, convince pienamente e si piazza prepotentemente a ridosso del mio podio smithiano personale - nell'ordine: Zack&Miri, Clerks 2, Clerks - insieme a Dogma.
Ancora una volta, l'allora vergine regista scrive e confeziona una sceneggiatura di incredibile profondità da profano del sesso e dei rapporti di coppia, palesemente - e giustamente - dalla parte della protagonista femminile e portatrice di un messaggio riassunto splendidamente da Silent Bob - immancabile la sua presenza, con l'inserapabile, irresistibile Jay - a proposito della Amy che da il titolo alla pellicola, simbolo delle grandi occasioni che, a volte, per stupidità, destino o scelte clamorosamente sbagliate, perdiamo nel corso della nostra vita per poi passare anni a cercare di nuovo, spesso senza successo.
La storia di Alyssa e Holden - ma, in qualche modo, anche dello stesso Holden e Banky - è il perfetto simbolo della parabola silentbobesca, e nonostante il gusto amaro del finale, trasmette l'impressione di essere servita ad ognuno dei protagonisti per crescere e che gli stessi, pur con tempistiche differenti, arriveranno dove arriveranno proprio grazie ad essa.
La frase di Alyssa "E' uno con cui uscivo" riferita a Holden brucia come una ferita aperta, ma apre le porte della ricerca di quella Amy che, a volte, pare proprio sfuggirci di mano, o peggio, non esistere nel nostro piccolo mondo di provincia.
Per usare un paragone legato anche all'età del sottoscritto riferita a quegli anni, insomma, sembra di aver quasi assistito alla fine dell'adolescenza cinematografica di Kevin Smith, che ci fa soffrire come quando un grande amore finisce e si crede non ne potrà mai esistere uno più grande e si pensa che la vita sia sempre come quando le vacanze finiscono e si torna dal mare costretti ad abbandonare quella persona speciale che si era pensato di trovare.
Fortunatamente, per lui e per noi, il regista del Jersey ha continuato a camminare, guardando avanti, e questo ha fatto sì che si potesse godere di cose come i già citati Clerks 2 e Zack&Miri, arrivati proprio grazie a Holden, Alyssa e Banky.
Si può tranquillamente dire che, senza una Amy da cercare, Smith sarebbe rimasto prigioniero della torrenziale pioggia emotiva dell'epoca: e, cosa assolutamente confortante e quasi magica, pare proprio che, alla fine, l'abbia trovata, e ci abbia messo su casa, più o meno la stessa in cui ci sentiamo quando guardiamo un qualche suo lavoro.
Fortunatamente, soprattutto per me, non è stato l'unico.

MrFord

P.S. Un appunto va speso per citare Mike Allred, geniale autore di graphic novel che ha partecipato alla realizzazione della pellicola - per quanto riguarda le parti dedicate agli albi a fumetti di Holden e Banky - del quale consiglio a tutti la lettura OBBLIGATORIA della stratosferica, incredibile, stupefacente saga di Mad Man.

P. P. S. Un altro appunto va speso per dire grazie alla mia Amy, Julez, per essersi fatta trovare e sopportare ogni giorno questo vecchio vagabondo dalle origini fumettare che le propina film a raffica.

"I say goodbye to romance, yeah
goodbye to friends, I tell you
goodbye to all the past
I guess that we'll meet
we'll meet in the end."
Ozzy Osbourne - "Goodbye to romance" -









lunedì 28 marzo 2011

Che bella giornata

La trama (con parole mie): Un ignorante e poco sveglio - ma dal cuore tanto grande, un pò come il Candido di Voltaire - raccomandato riesce ad ottenere, dopo l'ennesima bocciatura all'esame per l'ingresso nei Carabinieri, un posto come addetto alla sicurezza del vescovo di Milano. Nel frattempo, fratello e sorella terroristi improvvisati manco fossero usciti da un film di Martinelli decidono di far saltare la Madonnina del Duomo sfruttando il suddetto intelligentone.
Sembra già abbastanza così, ma purtroppo c'è molto altro.

Prima di iniziare, vorrei dedicare questo post al mio giovane padawan Vince.
Direi che, nonostante tutto, puoi essere contento, considerato che hai scatenato una marea di bottigliate!

E parliamo ora del film di Checco Zalone.
Dal punto di vista critico, ho trovato Una bella giornata un film insulso, terribilmente scritto ed interpretato, cinematograficamente nullo, dall'ironia banale ed assolutamente televisiva nonchè così schifosamente buonista da risultare a tratti irritante.
Parlando più pane e salame, personalmente ho provato una tristezza ancora più grande di quando incappai in Qualunquemente, che trovai talmente simile alla nostra realtà italiota da apparire, più che profetico, inesorabilmente agghiacciante.
Nel caso di questa vera e propria schifezza, invece, non è possibile neppure trincerarsi dietro la politica, perchè i colpevoli siamo proprio noi.
Noi che cacciamo soldi guadagnati - chissà, forse anche lavorando - per spingere Che bella giornata ad incassi stratosferici, e certifichiamo con la nostra presenza in sala lo status di "cult" della pellicola di Zalone, davvero inguardabile da qualsiasi lato o angolazione.
Senza scomodarsi neppure troppo a cercare, pensare che, una volta, la commedia all'italiana era Totò, Peppino e la malafemmina, I soliti ignoti o Amici miei, fa davvero male al cuore - altro che colonnello dei carabinieri! -, o anche solo che, in tempi più vicini alle nostre generazioni, è stata Mediterraneo o Johnny Stecchino, provoca sinceramente spasmi di rabbia curabili solo ed esclusivamente a suon di colpi di bottiglie dal fondo molto pesante sul testone pelato di Zalone, che forse punterà a diventare, come Tom Hardy, il nuovo Aldo Baglio - che in questi giorni è diventato il feticcio di qualsiasi attore passi sugli schermi di casa Ford -, ma che non ha neppure un briciolo dello spessore dello stesso.
E non stiamo certo parlando di Marlon Brando.
Poche palle, dunque.
Che bella giornata è tutto il peggio dell'italianità - se si escludono i cinepanettoni - sul grande schermo, e più che mostrare simpaticamente il fianco ai luoghi comuni che normalmente ci dipingono come una massa di idioti nullafacenti, conferma il fatto almeno quanto l'abilità politica e di idolo delle masse di chi ci governa.
Del resto, da un Paese che ha reso la creatura abominevole del Checco nazionale l'incasso più alto della Storia del Cinema tricolore non ci si poteva aspettare altro che questo Presidente.
Se le cose stanno davvero così, se questo è quello che possiamo offrire, allora, con buona pace di chi mena bottigliate, questo è anche quello che ci meritiamo.
Anche perchè ci sono due verità inconfutabili che Zalone ha messo in campo - un pò come l'innominabile quando decise di farci dono della sua presenza sulla scena politica - e che neppure con tutta la forza dei miei colpi posso sperare di abbattere, due verità che pesano come macigni sulle spalle di chi cerca, arrancando, di uscire da quest'oceano d'ignoranza trovando un'alternativa ai buonismi e ai savianismi - e così ho rifilato un'altra frecciatina a Cannibale, tanto per mantenermi in esercizio - attraverso una propria identità.
Le suddette, ed ho un brivido solo a ricordarle, sono "Questa è l'Italia, studiare non serve a un cazzo" e "Non ti preoccupare, ci penserà Checcho a distruggere la loro Storia".
Del Cinema, aggiungo io.
Ma non solo.
Perchè da questo spaccato esce un Paese popolato da qualunquisti figli dei luoghi comuni e delle raccomandazioni, in cui tutto è macchiettistico e volgarmente imbarazzante, nonchè dominato da giochi politici da due soldi legati al nepotismo e/o alla chiesa.
Cazzo.
Vuoi vedere che viviamo dentro un film con Zalone!?


MrFord


"Vieni a ballare in Puglia Puglia Puglia, 
tremulo come una foglia foglia foglia.
Tieni la testa alta quando passi vicino alla gru 
perchè può capitare che si stacchi e venga giù 
(speriamo, chissà che non si smetta di soffrire)."
Caparezza featuring Mr. Ford - "Vieni a ballare in Puglia" -


domenica 27 marzo 2011

Bronson

La trama (con parole mie): Michael Peterson, in arte Charles Bronson, è il detenuto più famoso del Regno Unito. 
A partire da quando, nel 1974, finì dentro per rapina, ha passato in rassegna la maggior parte degli istituti correzionali e di igiene mentale del paese, diventando una piccola icona di controcultura e continuando a battersi non tanto per esprimere un disagio, o per affrontare chissà quale battaglia politica, quanto per il gusto selvaggio e animalesco della lotta intesa, praticamente, come un'espressione artistica.

Neppure il tempo di riprendermi da quella perla che è stata Valhalla rising e di nuovo mi ritrovo al centro del vortice creativo di Nicolas Winding Refn, impegnato nell'insolito, curioso e grottesco biopic - se così si può chiamare - di quello che, a tutti gli effetti, può essere considerato il criminale più famoso nella terra della Regina.
Rispetto all'appena citato Valhalla rising, la visionarietà di Refn è espressa principalmente in fase di scrittura - molto, molto teatrale -, mantenendo, tutto sommato, una struttura temporale e visiva che rispetta i canoni umani della sua stessa concezione, lasciando di contro spazio pressochè totale all'interpretazione stupefacente di Tom Hardy, che da queste parti si era già fatto notare in Inception, e che, grazie ad una fisicità a dir poco dirompente, stimola la già fervente attesa del nuovo Batman di Nolan, dove troverà spazio nel ruolo di Bane, uno dei nemici dell'Uomo pipistrello che personalmente trovo più affascinanti.
Tornando a Bronson, non è possibile dunque non assegnare buona parte del merito della riuscita della pellicola al suo protagonista, che oltre ad offrirsi fisicamente al regista sfodera stoffa da vendere - la sequenza delle due facce è assolutamente da paura, così come le impagabili espressioni beffarde all'indirizzo del pubblico nel corso della narrazione "in prima persona"-, e ricorda, così come l'intera opera, il lavoro eccellente svolto da Eric Bana in Chopper - consigliatissimo, per chi non l'avesse visto -.
Sicuramente l'incedere della vicenda di Bronson è più convenzionale e meno rivoluzionaria di quella che vedeva come protagonista Harald/One eye nell'epopea di Valhalla rising, ma senza dubbio abbiamo per le mani un regista in grado di unire talento ed espressione artistica a potenziali blockbuster come questo, e in grado di colpire e stupire proprio come l'indomabile Bronson, charachter che pare uscito dalle fantasie di Gilliam o Jodorowski e spronato da una carica di irrefrenabile desiderio di lotta, legata - al contrario di One eye - non tanto alla rivalsa e alla furia quanto ad una passione traboccante, quasi fosse un vulcano perennemente in eruzione.
Certamente, con un protagonista di questo stampo, il rischio di immedesimazione distorta di alcune fasce di un pubblico più vasto è concreto - a tratti, parrà quasi di vedere una versione in acido e palestrata sul serio del Leonida trecentesco -, ma si tratta di un piccolo prezzo da pagare per far conoscere l'opera di uno dei cineasti europei più interessanti degli ultimi anni, colpevolmente dimenticato dalla distribuzione italiana insieme agli altrettanto fenomenali Noè e Lanthimos.
E se non la sala, che almeno l'home video possa deliziare appassionati e non con lavori stupefacenti come questo.
O ci troveremo costretti a sguinzagliare il buon vecchio Charles Bronson, con i suoi baffi a celare una somiglianza imbarazzante con Aldo Baglio e gli occhialini tondi in pieno stile John Lennon - con la differenza che lui è decisamente un non non violento -, a seminare bottigliate in pieno viso ai miopi distributori nostrani.
Anche se il sospetto che non siano una sfida abbastanza stimolante, per lui, c'è tutto.


MrFord


"I'm a fist of rage
one foot in the grave
I'm a fist of rage
far from saved
I'm a fist of rage
in a broken state."
Kid Rock - "Fist of rage" -
 

sabato 26 marzo 2011

Il socio

La trama (con parole mie): Mitch McDeere, giovane e rampante laureando in legge di Harvard, viene contattato da un piccolo studio legale di Memphis in modo che entri a far parte di questa contenuta, educata, equilibrata "famiglia" grazie ad un "offerta che non può rifiutare".
Per Mitch e la moglie Abby sarà l'inizio di un incubo, presi nel mezzo della lotta tra l'Fbi e lo studio stesso, in realtà maschera legale dei traffici di una potente famiglia mafiosa di Chicago.
Il nostro, strenuo credente della Legge, dovrà scegliere se accettare una vita da complice, da testimone protetto radiato dall'albo o la morte.
Ma ovviamente, c'è sempre un'altra via.

Per quanto strano possa sembrare, non avevo ancora visto Il socio, uno dei blockbuster mascherati da film d'autore più noti e conosciuti degli anni novanta, tipico prodotto all'americana, caposaldo del legal thriller nonchè pellicola dal cast all stars.
E devo dire di essermelo goduto, in una certa misura.
In una certa misura perchè c'è un "ma" non proprio indifferente.
Questo tipo di Cinema made in Usa, con il protagonista solido come la roccia, messo alle strette da tutto e da tutti che, alla fine, nonostante i passi falsi, riesce a cavarsela alla grande, è la tipica espressione da cultura a stelle e strisce che, negli anni a cavallo tra l'ottimismo ruggente degli eighties e la demolizione dei nineties, cercava di salvare il salvabile senza rendersi conto che un'epoca era ormai tramontata e, più che a tenere il forte, l'idea migliore sarebbe stata quella di osare lanciandosi in battaglia.
Tutta questa sviolinata per dire che, certo, Il socio è un elegantissimo prodotto commerciale, che scivola via senza intoppi e finisce per essere uno di quei film che quando si incrociano in tv non si riesce a cambiare canale neppure quando li si è già visti e stravisti, eppure, anche fermandosi solo per un istante a riflettere, la distanza che lo separa da opere come i gioielli di Polanski o gli Eyes wide shut di Kubrick è più che siderale.
Dietro la confezione di gran classe ed il cast quotatissimo, la fotografia ed il montaggio curati nel dettaglio, la regia senza sbavature di Pollack - anche se in questo caso non si tratta certo di uno dei suoi lavori migliori -, infatti, emerge principalmente una trama telefonata sin dal principio, accattivante ma mai davvero profonda, tesa eppure mai davvero in grado di fare percepire allo spettatore un pericolo effettivo per il protagonista, e non soltanto per il fatto che si tratti di Tom Cruise.
Resta comunque l'interessante sviluppo della trama legato alla tattica legale che permette a Mitch di studiare un piano alternativo che gli possa evitare di essere radiato dall'albo a seguito dell'eventuale testimonianza contro il suo studio ed i clienti ad esso legati, anch'essa purtroppo poco sfruttata dalla sceneggiatura, probabilmente troppo accademica e mai davvero in grado di osare anche una sola mossa oltre il confine dettato dalle regole standard del film per tutti.
L'impressione che si ha, infatti, godutosi l'intrattenimento vero e proprio, è quella di una cricca di boss della produzione che, come gli stessi soci fondatori dello studio di Mitch, dettano le regole affinchè una pellicola non esca mai dal seminato, perchè Reagan e gli ottanta sono crollati ed i volti del nuovo decennio non paiono essere così confortanti per i vecchi conservatori incalliti - di Memphis e non - intenti a fare barbecue nei giardini delle loro villette.
Peccato davvero, perchè forse rischiare qualcosa in più prima avrebbe prevenuto almeno in parte il dolore della caduta.
Che, a ben guardare, a noi non ha fatto neppure troppo male: il Cinema ha le spalle larghe e il dna di un Balboa, e così, dopo aver incassato ed essere andato giù, appena prima della campana del nuovo millennio ha deciso di tornare ad avanzare, alzando la testa.
In barba a tutti i Reagan passati e futuri.


MrFord


"All I wann say is that 
they dont really care
about us 
all I wann say is that
they dont really care
about you."
Michael Jackson - "They don't care about us" -






venerdì 25 marzo 2011

4400 Stagione 4

La trama (con parole mie): I nodi vengono al pettine per i protagonisti della serie nel crescendo dell'ultima stagione: Jordan Collier e i positivi alla promicina, uniti a parte dei 4400 originali, trovano un loro spazio in un sobborgo di Seattle, Tom e l'NTAC cercano di affrontare i risvolti politici e sociali del cambiamento che la promicina ha portato nella società e all'orizzonte spuntano i misteriosi Marchiati a complicare la situazione. 
Chi avrà la meglio, e condurrà l'umanità verso una nuova epoca?

Sono costretto ad ammettere che, con il passare delle stagioni, malgrado la godibilità e le buone idee, 4400 ed i suoi autori sono andati confondendosi inesorabilmente.
Osservando l'ultima stagione, infatti, si ha l'impressione amplificata che i detrattori - sacrileghi! - di Lost hanno cercato di far passare come vera nel corso di tutta la durata del serial più importante mai passato sul piccolo schermo, ovvero che la stessa parte creativa della squadra di lavoro non avesse la benchè minima idea a proposito di come procedere ed eventualmente concludere - con un finale aperto, oppure no, poco importa - l'intera vicenda.
Personaggi colpevolmente dimenticati - Alana su tutti -, trame abbozzate e mal sviluppate - la profezia legata al potere guadagnato da Kyle Baldwin dopo l'assunzione della promicina -, elementi inseriti e poi non sviluppati a dovere - il ruolo dei Marchiati, il personaggio di Ben, la carriera politica di Shawn - hanno contribuito a rendere la quarta ed ultima stagione la meno efficace dell'opera, dando l'impressione di un prodotto destinato ad essere dimenticato e seguito con costanza soltanto da spettatori disattenti o da chi - come noi in casa Ford - ha voluto credere in un cambio di marcia fino in fondo.
Certo, la sensazione di "perdita" che si ha ogni volta che una serie giunge alla sua naturale conclusione resta, ma non c'è malinconia che possa mettere sullo stesso piano 4400 a cult fordiani indiscussi come Oz, I Soprano o Six feet under, esempio perfetto anche nell'ambito delle "ultime puntate" - sfido chiunque l'abbia vista dopo aver seguito dalla prima stagione ad ammettere di non aver dovuto lottare per trattenere le lacrime con l'ultimo episodio, anche più di quanto non sia accaduto per il suddetto Lost -.
Quello che resta è un serial perfetto per gli appassionati di fumetti o fantascienza dalle pretese non troppo elevate, disposti, più che a trovare una pietra miliare, a godersi senza troppi patemi un prodotto prevalentemente d'intrattenimento senza accanirsi sulle lacune dello stesso.
In fondo, 4400 può essere tutto, ma non pretenziosa.
E personaggi come Jordan Collier o Shawn Farrell restano indiscutibilmente interessanti, anche quando alimentano, nello spettatore, la sensazione d'incompiuta di una serie partita con le migliori premesse e smarritasi lungo la via.
Speriamo soltanto che Tom e tutti gli altri suoi protagonisti si siano invece ritrovati ed abbiano trovato il posto che, di certo, non hanno avuto qui.
La loro luce, la loro speranza, la loro Promise City.

MrFord

P. S. Una domanda: ma secondo voi quale fascino esercita Seattle sull'universo delle serie tv!?


"Take me down to the paradise city
where the grass is green
and the girls are pretty
take me home."
Guns N' Roses - "Paradise city" -

La lingua del fuoco

La trama (con parole mie): Jack Wade è un ex poliziotto amante del surf che, dodici anni prima della vicenda narrata, ha perso lavoro, amore e rispettabilità per difendere un testimone in un processo legato ad un incendio doloso. 
Da allora lavora come liquidatore per la compagnia assicurativa California Fire&Life. 
La sua è una vita in solitaria, divisa tra la passione per l'oceano e la professionalità. 
Fino a quando l'incendio della grande villa dei Vale risveglia il senso di giustizia che, da sempre, alberga nel suo cuore.
Così iniziano i guai.

Chi frequenta il saloon da un pò di tempo sa quanto, da queste parti, sia apprezzato Don Winslow, esponente di spicco del noir californiano recente nonchè autore di uno dei miei romanzi preferiti in assoluto, quella meraviglia che è Il potere del cane.
Riscoperto di recente anche in Italia, ora i suoi romanzi cominciano ad essere ristampati e riproposti, e così è per questo lavoro solido e tosto precedente sia al Capolavoro appena citato che ai più noti La pattuglia dell'alba e L'inverno di Frankie Machine.
Sicuramente la mano di Winslow è più acerba, nel raccontare le vicende che vedono protagonista Jack Wade, meno abile nel costruire un intreccio a mosaico come si avrà per i protagonisti de Il potere del cane - di nuovo -, e soprattutto nella prima parte concentra forse troppi pregi nel suo protagonista, che assume i connotati di una sorta di Jack "spaccaculi infallibile" Bauer che non mi va troppo giù.
Ma è solo un'impressione: grazie all'utilizzo del flashback Jack ed il suo antagonista Nicky Vale assumono uno spessore enorme, e portano un cambio di marcia radicale all'intera opera, regalando due spaccati - uno rispetto alla storia tutta made in Usa di Jack, uomo d'altri tempi come se ne vedevano nei film con Humphrey Bogart, e l'altro al percorso di sofferenza ed ambizione di Nicky, dall'Unione sovietica al Kgb, dalle torture in Afghanistan a quelle in nome della Vori v zakone, in carcere - che trasformano la California del surf, delle onde, delle bellezze in spiaggia e dell'american dream in un campo di battaglia che stupisce il lettore con l'incedere della storia, passando dall'atmosfera dell'hard boiled a quella del legal thriller.
Il tutto, mescolando le carte in modo da rendere ogni personaggio il più sfaccettato ed umano possibile, marchio di fabbrica di un autore in grado di regalare al suo pubblico charachters così simili a noi da farci tremare di fronte alla capacità dell'Uomo di mettersi nei guai, incredibilmente pericolosa ed attraente, e quella di rimediare ai propri errori e tornare contando solo su una forza uguale e contraria alla precedente a percorrere la strada che siamo in grado di abbandonare ad ogni passo.
Sicuramente, partendo da una lettura come questa e compiendo il percorso inverso a quello che io ho fatto rispetto all'opera di Winslow grazie all'intelligenza della distribuzione italiana, La lingua del fuoco risulterà anche più efficace di quanto non sia sembrato al sottoscritto, ancora abbagliato dai suoi successivi fuochi d'artificio per poter considerare questo lavoro davvero esplosivo.
Detto ciò, state pure tranquilli.
Qui si parla del Michael Mann della letteratura contemporanea.
Quindi tenete duro, state pronti a tutto, e gettatevi a capofitto nel fuoco.
E ricordate: mente fredda, cuore saldo, e attenti al flashover.


MrFord


"I'm a firestarter, twisted firestarter
you're the firestarter, twisted firestarter
I'm a firestarter, twisted firestarter."

Prodigy - "Firestarter" -

giovedì 24 marzo 2011

I'm still here

La trama (con parole mie): Dopo aver sfiorato l'Oscar interpretando Johnny Cash in Walk the line e stupito ancora una volta la critica nello splendido Two lovers Joaquin Phoenix, fratello del leggendario River, decide che ne ha avuto abbastanza del mondo del Cinema, e dichiara ufficialmente di volersi ritirare per diventare un cantante hip hop.
Alla ricerca di un produttore e sempre seguito dal cognato Casey Affleck, lo vediamo strafarsi e sboccare, cercare di convincere P. Diddy che il suo disco sarà una bomba e tenere un concerto certamente non memorabile in un club esclusivo a Miami.
Il tutto condito da un'apparizione leggendaria al David Letterman Show.
Il tutto per poi scoprire che si tratta di una trovata finalizzata a girare un documentario sull'attore.

A volte può essere curioso studiare modelli di vite ben lontane dalle nostre, quasi si fosse in una specie di Quark ad osservare per quale motivo l'animale x si gratta sfruttando la corteccia dell'albero y invece che dell'albero z.
Osservare la trovata sicuramente originale e "rischiosa", dal punto di vista della carriera come attore, di Joaquin Phoenix mi ha dato esattamente la stessa sensazione.
Onestamente, sono sempre stato un grande fan del tetro J. P., che ho sempre reputato più talentuoso del prematuramente scomparso fratello fin dai tempi de Il gladiatore, per non parlare delle grandi prove offerte soprattutto quando a dirigerlo ha trovato James Gray: eppure, vederlo ingrassare a dismisura e perdersi in giornate passate a strafarsi e farfugliare frasi a mezza voce, specie considerato il fatto che l'operazione era fin dall'inizio studiata a tavolino, non ha regalato gran punti al memorabile interprete del Johnny Cash di Walk the line.
Anzi, tutt'altro.
Certo, parentesi come l'apparizione agghiacciante al David Letterman Show sconfinano nel grottesco e riescono, paradossalmente, a divertire, ma l'idea di una regia completamente appiattita al servizio dell'ego smisurato del protagonista non giova alla forza della pellicola, che nelle quasi due ore di durata incappa in più di un punto da sbadiglio netto e devastante.
E' proprio in Casey Affleck, infatti, il punto debole maggiore di I'm still here: evidentemente affetto dalla malattia opposta a quella che ha colpito il fratello Ben - un cane a recitare, decisamente bravino come regista -, il giovane attore appiattisce la sua presenza dietro le bravate di Phoenix, concedendosi soltanto in apertura e chiusura di pellicola un paio di spunti interessanti, sicuramente presi a piene mani da quella meraviglia che è Kinsky - Il mio nemico più caro di Werner Herzog.
Peccato che, per l'appunto, Affleck non sia l'autore di Aguirre o Fitzcarraldo e Phoenix debba recitare e forzare la mano per poter vedere gli eccessi di Kinsky lontani anni luce.
Così, tra i filmini di Joaquin bambino e la sua immagine di uomo alla deriva che si addentra nella foresta pare più di assistere ad una versione forzata di Somewhere, senza però trovare traccia dell'ironia e della sottile critica mossa da Sofia Coppola allo stardom hollywoodiano grazie al suo azzeccatissimo Johnny Marco.
I'm still here resta un esperimento a suo modo coraggioso, ma di certo, pensando ai modelli che l'hanno ispirato, risulta inevitabilmente più di un tantino pretenzioso e sicuramente troppo esile se confrontato al "sacrificio" - in termini di reputazione, soldi e professionalità - cui si è esposto il suo protagonista indiscusso.
Se proprio doveste scegliere di destinare una visione ad una vera e propria ricerca su quello che è - o potrebbe essere - l'uomo dietro la maschera dell'attore, ripiegate su Herzog e sul folle Kinsky: sicuramente troverete una materia che sarà pane tostissimo per tutti i vostri denti.

MrFord


"I wanna live close to the sun
well pack your bags cause I've already won
everything I'm through, nothing in my way
I'll get there one day
cause I wanna be... Famous!"
Voodoo Highway - "I wanna be famous" -







mercoledì 23 marzo 2011

Liz Taylor (1932 - 2011)

So long, Cleopatra.

MrFord

"Il successo è un eccellente deodorante. Porta via tutti i cattivi odori precedenti."
Liz Taylor

A WhiteRussian year

Esattamente un anno fa nasceva WhiteRussian: Cinema (e non solo) all'ultimo sorso.
Quello che pareva lo sfizio di una sera in cui troppo Jagermeister era sceso nel gargaroz del vecchio Ford è diventato una piccola, confortante realtà quotidiana. 
E ha portato un sacco di cose nella mia vita. Muy bien. E' proprio così che deve andare.

Ragazzi, che dire!?
Posso solo ringraziare tutti quelli che, ogni giorno, passano nel saloon di questo vecchio cowboy un pò tamarro e dedicano qualche minuto ai suoi sproloqui, dicendo la loro o ascoltando in silenzio.
Spero che i prossimi trecentosessantacinque giorni ci portino altre discussioni, confronti, conoscenze, scambi e siano ricchi di esperienze per ognuno di noi.
In particolare, tra tutti, ma proprio tutti, dalla mia crew di Expendables agli ultimi acquisti del blog, mi sento di citare tre persone che hanno segnato questi dodici mesi di Ford in rete:

- Julez, che mi ha sostenuto fin dal principio e che segna ogni mia giornata. Non potrò mai finire di ringraziarti. E vedrò di farlo fino a centotre anni. E oltre.

- Dembo, che anche se manca di connessione da mesi sa che il nostro incontro è stato una vera rivelazione, e non pensavo davvero che avrei potuto, alla mia età, trovare un amico come se ne trovavano da ragazzi. Come ho detto a Lansdale in persona, sei uno dei miei due Leonard. L'altro è mio fratello.

- Cannibale, che non solo è stato il mio "nemico" per eccellenza, ma anche un ottimo interlocutore per ogni discussione. Non è facile riuscire a mantenere quella strafottente, acuta ironia ed essere sempre pronti a sferrare ed incassare colpi con la stessa serafica tranquillità. Senza Joker, Batman che cazzo pattuglia le strade a fare!? ;)

Avrei voluto linkare un sacco di voi, che ogni giorno arricchite il bagaglio del mio viaggio, ma così sarei stato il classico buonista che non vuole scontentare nessuno, e soprattutto il post sarebbe diventato una sorta di terrificante elenco del telefono, senza contare che sono quasi le due di notte e ho mal di denti, quindi non mi pare il caso.

Detto ciò, muchas gracias a todos, davvero.
Che il viaggio continui!

MrFord

"I'm in the sky tonight, 
there I can keep by your side
watching the wide world riot and hiding out
I'll be coming home next year."
Foo Fighters - "Next year" -



Easy girl

La trama (con parole mie): Olive è una ragazza delle superiori come tante altre, sveglia, ironica ed intelligente, dai buoni voti e dalla condotta ineccepibile. Ha una famiglia aperta e presente, un grande amore mai concretizzato dai tempi delle medie ed una migliore amica. Tutto cambia quando, per evitare un'agghiacciante weekend in campeggio con la stessa amica, una bugia innesca una catena di eventi che la porteranno a diventare la portatrice della "lettera scarlatta" nei corridoi della scuola.

Tutti noi sappiamo bene, perchè ci siamo passati e perchè, indubbiamente, si tratta di uno dei periodi più problematici affrontati nel corso della vita, quanto siano duri - nel bene o nel male - gli anni delle superiori.
Dai primi agli ultimi dentro e fuori le classi, che sia ribellione o chiusura, esplosione o implosione emozionale, esperienze nuove in tutti i campi o nerditudine completa e devastante, si tratta senza dubbio di una delle prove più toste che ci troviamo ad affrontare, e soltanto passati anni, in genere, ci rendiamo davvero conto di quanto fossimo fragili e stupidi, anche nei momenti in cui ci siamo creduti invincibili, geniali o Darren Aronofsky - tanto per lanciare una frecciatina al Cannibale -.
In mezzo alla giungla selvaggia di quei corridoi, tra professori e prime cotte, la reputazione ha da sempre giocato un ruolo fondamentale rispetto allo spessore e alla visibilità di cui è possibile godere presso gli altri studenti - Glee docet -, tanto da influenzare le nostre vite scolastiche anche quando non legate ad imprese effettivamente compiute da noi.
Ai tempi dei primi due anni di liceo, anni di regressione e timidezza spietata, ed uno dei periodi peggiori che possa ricordare, presso le altre classi dell'istituto godevo comunque di una certa visibilità solo ed esclusivamente perchè parte della leggendaria peggior classe della scuola, fucina di più della metà dei sette in condotta rifilati al corpo studenti.
Quando quella classe fu smembrata, ed io riuscii ad uscire finalmente dal guscio entro il quale mi ero rintanato la fama di quei due anni e di quel gruppo continuò a portarmi notorietà presso i "bravi ragazzi" delle altre sezioni, e mi accompagnò fino a quando il mio rapporto conflittuale con la temutissima insegnante di matematica e fisica e i miei voti nei temi di italiano non mi garantirono visibilità per qualcosa che avevo effettivamente compiuto.
Ora, certo la mia non sarà la storia più originale del mondo, anche perchè tutti voi avrete percorsi simili, alle vostre spalle, tutti filtrati, segnati, ostacolati o spinti prodigiosamente in avanti a seconda dei cambiamenti repentini dell'umorale stronza nota, per l'appunto, come reputazione.
Easy A - o Easy girl, inutilmente variato titolo di distribuzione italiana -, commedia acuta e divertente - come la sua protagonista - mascherata da teen movie, gioca molto del suo spessore proprio sul concetto della stessa, ingrediente principale del successo o del fallimento della nostra vita all'interno dei corridoi della scuola.
La metamorfosi involontaria di Olive, da presa di posizione ad imposizione della massa, da scelta di differenziazione a maschera utile a salvare il salvabile - spesso degli altri, a scapito del proprio - deve questa sua incarnazione moderna al romanzo di Nathaniel Hawtorne "La lettera scarlatta", un Classico della letteratura che alla maggior parte di noi sarà capitato di leggere - o dover leggere - almeno una volta durante il percorso di studi, o, per i meno diligenti ed interessati alla lettura, di vedere sullo schermo, purtroppo spesso nella versione interpretata da Demi Moore - cinematograficamente la peggiore mai proposta, come giustamente sottolineato anche nel corso di questa pellicola -.
L'importanza di quest'opera, a mio parere, è sempre stata data dalla sua parte sociale, legata a doppio filo all'influenza che il (pre)giudizio può avere nell'influenzare la vita di una persona, e quanto potente sia, in questo senso, la forza dell'opinione della massa, che si alimenta e cresce come un mostro finendo per rischiare di ingoiare, voci fondate oppure no, masticare per benino e digerire nel peggiore dei modi l'oggetto delle voci.
La potenza dirompente dell'opinione altrui e di una società che, dai tempi della caccia alle streghe, pare cambiata solo tecnologicamente, sono analizzati attraverso una delle protagoniste più fresche ed accattivanti che mi sia capitato di vedere di recente - ottima Emma Stone -, e nonostante alcuni clichè di genere - la storia d'amore, in particolare, resa comunque piacevole proprio perchè non insistente o insistita e condita da una nostalgia per gli anni ottanta che non può non conquistarmi - tutto finisce per assumere una dimensione ben maggiore di quella del fimetto da weekend leggero e senza pretese, stimolando riflessioni senza alzare mai tiro e voce, e, a distanza di qualche ora dalla visione, mostrando una profondità che non si sarebbe potuta neppure sospettare al principio.
Certo, non voglio appesantire il post o compromettere la visione di questo film facendolo sembrare quello che non è - e dando inizio ad una catena pregiudiziale, in qualche modo -, così vi rassicuro: Easy girl è una commedia leggera e deliziosa, e questo proprio perchè intelligente e profonda. 
E dalla protagonista che ricorda - solo per il nome, ma che importa - il magnifico Little miss sunshine ad un'atmosfera smart simile a quella di Juno non c'è nulla, ma proprio nulla, che mi possa portare a non consigliarvi di concedergli almeno una visione.
Altrimenti, per una volta, invece delle bottigliate vi aspetteranno una valanga di voci, ovviamente non vere, in grado di trasformare la vostra vita in un vero inferno.
E non ci sarà un John Cusack con lo stereo tra le braccia pronto a presentarsi fuori dalla porta dichiarandovi amore eterno.
E potreste rendervi conto, con rammarico profondo, che gli anni ottanta sono finiti.


MrFord


"I don't give a damn 'bout my reputation
I've never been afraid of any deviation
an' I don't really care if ya think I'm strange
I ain't gonna change."
Joan Jett - "Bad reputation" - 

martedì 22 marzo 2011

Paranormal activity

La trama (con parole mie): Katie e Micah vivono insieme e felici in una casa enorme ed assolutamente improponibile economicamente per due ragazzi della loro età in attesa che lei possa laurearsi per poi convolare a giuste nozze. 
Quello che Micah non sa, però, è che un demone segue la sua metà da quando era bambina, e lo stesso pare aver deciso che è arrivato il momento di fare sul serio. 
Chissà, forse anche a lui girano profondamente le palle a vedere due nullafacenti in una casa del genere. Con tanto di piscina.

Le pellicole di cui si parla tanto - e spesso anche troppo - come di terrificanti fautrici di scandali e sconvolgimenti, hanno la fastidiosa tendenza a deludere clamorosamente le aspettative.
Ricordo, in questo senso, esempi lampanti quali Il corvo, Donnie Darko, Blair Witch Project e, ovviamente, questo Paranormal activity.
Ora, dei titoli appena citati, il tempo e successive visioni hanno decretato come salvo soltanto il primo, confermando la pochezza più o meno pronunciata del resto dell'allegra brigata: il lavoro di Oren Peli - che, con un nome come questo, difficilmente potrà essere etichettato come genio della settima arte prima e soprattutto dopo aver avuto esperienza del suo lavoro - si inserisce già al primo passaggio sui miei schermi di diritto nel più nutrito secondo gruppo, pur non sconvolgendomi negativamente come avevo previsto.
Armato di bottiglie pronte a colpire mi aspettavo, infatti, di poter sfoderare una sonora incazzatura ed uno sfogo adeguato al mal di denti di questi giorni. 
Inutile sottolineare quanto le mie compagne di stroncature siano rimaste deluse dal fatto di rimanere rinfoderate senza colpo ferire, nonostante la belligerante volontà di partenza.
Del resto, sparare una raffica di bottigliate a Paranormal activity sarebbe stato troppo facile e per nulla meritevole, dato che, fondamentalmente, parliamo di una quasi ora e mezza di nulla che non siano le velleità da Grande Fratello di una coppia di giovani ricchi di San Diego.
Vogliamo davvero imitare Spielberg ed affermare che questa roba fa paura!?
Se così fosse, cult di genere come L'esorcista o Rosemary's baby dovrebbero essere ritirati dal commercio per evitare attacchi cardiaci e preservare la salute degli spettatori.
E non ho neppure lontanamente citato Shining o il mio amico Bob di Twin Peaks.
Dunque, cosa sarà mai questo Paranormal activity di cui si è tanto parlato?
E' un film horror? No.
E' un thriller? No.
E' un'operazione commerciale? No, anche perchè a quest'ora se ne saranno dimenticati anche i pochi che l'hanno sostenuto ai tempi dell'uscita in sala.
E' una schifezza colossale? No, porcate come la saga di Saw sono sicuramente più indigeste.
La verità, compagni di saloon, è che questo film non è proprio nulla.
Se esistesse un grafico J. Evans Pritchard, professore emerito - e rilancio il concorso, il più veloce a pescare la citazione e postarla nel commento vince a scelta un post a quattro mani o una recensione a sua richiesta -, anche per i film, sono certo che la pellicola di Peli otterrebbe un altisonante zero, in perfetta correlazione alle reazioni in me suscitate dalla sua visione.
Fortunatamente, mi basta fare un salto tra i dvd per tornare bambino e ricordare quando, tra una visione di mamma Palmer e gli eccessi d'ira di Reagan mi coprivo gli occhi con le mani lasciando uno spiraglio per vedere ma sentirmi ugualmente protetto o un pò più grande, ed osservando i sussulti del sacco di Audition, la scuola vuota di Radice quadrata di tre o l'esterno della tavola calda di Mulholland drive riuscivo ancora, con più fierezza, a farmela sotto.
Lascio ai figli di Mtv e della tv i loro demoni da impronte nel borotalco, che forse, per noi della vecchia scuola, saranno sempre un pò troppo poco.
O niente.


MrFord


"In panciolle me ne sto 
visiono un film magnifico
quello dove c’è la ragazzina posseduta dal demonio
con il prete che alla fine va giù!
La sua mamma è preoccupata 
perché dice parolacce e manda tutti a fancù 
poi c’è quella scena che il prete si avvicina
e lei gli spara del vomito verde che aveva nel gargaroz!"
Elio e le Storie Tese - "Gargaroz" -


 

lunedì 21 marzo 2011

Rango

La trama (con parole mie): Rango, un camaleonte che vive solo immaginando di girare scene di film nella sua teca, finisce catapultato fuori dall'automobile della famiglia che lo possiede e si ritrova nel bel mezzo del selvaggio West degli animali di piccola taglia del deserto del Mojave.
Accompagnato da una banda di suonatori messicani si ritaglierà un personaggio immaginato di uno sceriffo leggendario soltanto per accorgersi che, in realtà, non ha fatto nient'altro che andare alla ricerca di se stesso. 
Per poi trovarsi.

Devo ammetterlo, ho sempre ritenuto Gore Verbinski un discreto mestierante.
Con tutti i suoi difetti, la serie dedicata a Sparrow e soci, oltre ad essere fortunatissima al botteghino, risulta una perfetta raccolta di popcorn movies, il remake di The ring non sfigurava completamente rispetto alla pellicola di riferimento e The weather man, nonostante Nicholas Cage, mi è sempre sembrata una più che dignitosa commedia.
Rango, effettivamente, poteva essere un rischio non da poco, considerato che lo stesso regista pare ormai completamente assorbito dal lavoro legato al nuovo capitolo dedicato ai Pirati dei Caraibi, senza considerare il fatto che, in ambito di animazione, la scena è ormai dominata pressochè totalmente, parlando di autorialità, da Miyazaki e dalla Pixar, se si eccettuano prodotti fuori dagli schemi come i lavori di Michel Ocelot o cose enormi come Valzer con Bashir.
Eppure, in conclusione, il lavoro svolto da Verbinski ed il risultato finale non sono affatto deludenti o noiosi come gli ultimi prodotti Dreamworks - parlo degli annacquatissimi Megamind e Cattivissimo me -, e grazie ad un'ambientazione che come sa bene chi frequenta il mio saloon adoro, una buona dose di (auto)ironia e citazioni mai invasive e sempre efficaci - su tutte la Cavalcata delle valchirie, che sarà inflazionata quanto volete, ma fa sempre la sua scena, e Clint nei panni dello spirito del West, trovata geniale - conduce lo spettatore attraverso una piccola epopea in grado di omaggiare, pur se a modo suo, i grandi Classici che questo genere ha regalato al Cinema nel corso della sua Storia.
Dopo un inizio stentato - non per nulla, la parte non western della vicenda - in cui ho temuto fortemente una versione camaleontica del terrificante balletto deppiano di Alice in wonderland, la pellicola trova la sua dimensione introducendo una galleria di personaggi che ricordano i comprimari dei film di Sergio Leone ripresi da Eastwood stesso in pietre miliari come Il texano dagli occhi di ghiaccio - adattamento italiano agghiacciante dell'originale The outlaw Josey Wales -, impreziosita dal perfido sindaco che incarna il "nuovo West" che prevede il dominio dei politici sui pistoleri, dal clan di roditori redneck cavalcatori di pipistrelli fino al fantastico antagonista Jack, serpente a sonagli perfetto cattivo della vecchia scuola, con tanto di gesto di rispetto conclusivo e lezione al suddetto sindaco in barba a chi vorrebbe vedere la buona, vecchia frontiera seppellita con i suoi eroi.
Un piccolo film, ma sicuramente un ottimo divertissement per una serata senza pretese, in pieno spirito fordiano, come direbbe Cannibale, musicato alla grande, quasi fossimo a metà strada tra il Clint con o senza il sigaro e le pirotecniche evoluzioni del tex-mex in salsa Rodriguez.
Giusto per non dimenticarci che, nel West, "quando la realtà incontra la leggenda, vince la leggenda".
John Ford docet.
E anche un pò Rango.


MrFord


"He came dancing across the water
with his galleons and guns
looking for the new world
in that palace in the sun."
Neil Young - "Cortez the killer" - 
 

domenica 20 marzo 2011

Lie to me Stagione 2

La trama (con parole mie): Lightman e soci, specialisti nell'individuare menzogne, ci portano dritti dritti in una seconda stagione che vira verso l'azione mantenendo lo spirito poco equilibrato del suo protagonista. 
Scopriamo, passo dopo passo, dettagli più profondi sulla squadra del poco ligio alle regole Cal e qualcosa in più del suo passato.
Dalle atmosfere indagatorie della prima stagione, sembra che, questa volta, 24 e The Shield abbiano molto influenzato il desiderio di dar fuoco alle polveri dei creatori della serie.

L'idea di incentrare un serial - con tutti i rischi che ne conseguono - su una squadra speciale che indaghi sulle menzogne, piccole e grandi, cui ogni giorno ognuno di noi si affida - che sia al lavoro, per la strada, da soli o in compagnia, poco importa - rappresenta certamente una sfida interessante, specie se i suoi protagonisti, come gli eroi di un fumetto, assumono i connotati di personaggi poco inclini ai cambiamenti, quasi fossero cristallizzati nel tempo e nei loro caratteri, vizi, pregi o difetti.
E' il caso di Lie to me, prodotto d'intrattenimento del piccolo schermo che riesce ad amalgamare ad un tempo gli elementi investigativi di Criminal minds ed un protagonista alla House, la scorrevolezza di Chuck e l'esplosività di 24.
Ora, la cosa certa è che, nonostante tutti questi bei riferimenti, non siamo - e probabilmente non saremo mai - di fronte alla serie del secolo, o ad un prodotto destinato a cambiare la vita dei suoi spettatori come Lost, Misfits o Dexter, ma di sicuro Cal Lightman e compagnia hanno il grande merito di regalare momenti - siano essi drammatici o scanzonati - di ottimo intrattenimento al loro pubblico, senza celare troppo la mano di un creatore d'eccezione - Shawn Ryan, il padre di The Shield - eppure tenendosi lontani dalle atmosfere troppo realistiche e "pesanti" di un serial impegnativo come quello appena citato.
Nel corso di questa stagione questo elemento di leggerezza è molto più pronunciato rispetto alla precedente, ed è amplificato da un Lightman scatenato sia nel fare gigionesco e cialtrone sia nelle rivelazioni sul suo passato, che spesso culminano in episodi che hanno come ingrediente principale l'azione, quasi fossimo in un film di Tony Scott girato con uno stile british.
Tim Roth continua ad essere clamorosamente indicato per la sua parte, tanto da surclassare non solo i suoi colleghi e co-protagonisti ma anche guest star importanti - almeno per il piccolo schermo - come Melissa George, che i fan di Alias e In treatment ricorderanno bene.
Parlando di guest stars è impossibile non ricordare l'episodio/omaggio al già citato The Shield, che vede sfilare i volti che furono di Aceveda, Danny Sofer, Ronny, Lem e Billings: se avessi visto far capolino anche la testona pelata di Vic Mackie, avrei potuto avere un mancamento.
Interessante - e sicuramente più continuativo in fase di scrittura - risulta essere l'evoluzione del rapporto tra Lightman e la figlia Emily, che promette di diventare molto più che una semplice spalla per il nostro protagonista, e di certo incuriosisce anche in vista della terza stagione, ancora in corso negli States e prossimamente sugli schermi di casa Ford.
Di certo, una serie per tutti e non, che richiede una certa leggerezza ma impossibile da sottovalutare, perfettamente a metà strada tra prodotti più autoriali ed altri a larghissimo consumo: quello che, anche se potrebbe non essere ammesso, è sicuro, è che una volta fatta la conoscenza di Cal Lightman si cercherà sempre di osservare con attenzione i nostri interlocutori, perchè se pure non si riusciranno ad individuare perfettamente le menzogne attraverso i tratti dei loro volti, di sicuro potremo pensare di poter controllare i nostri, e provare a giocarci sempre una carta in più.


MrFord


"White lies for dark times and I don't need your crutch
I'm kicking out stained glass windows 
and I'm tender to the touch."
Ben Harper and the Relentless 7 - "Shimmer and shine" -

sabato 19 marzo 2011

Irreversible

La trama (con parole mie): Marcus e Pierre si inoltrano nelle profondità dantesche del Rectum, un locale gay che pare un girone infernale, per vendicarsi di La Tenia, l'uomo che ha stuprato e ridotto in fin di vita Alex, donna del primo ed ex compagna del secondo.
Ma è un viaggio a ritroso, che prende per mano lo spettatore e lo riporta, volente o nolente, all'origine di quella notte da incubo, alla ricerca di una spiegazione che si nasconde nei meandri delle pieghe del tempo.


Ammetto di dover ancora metabolizzare Enter the void, opera geniale e rivoluzionaria firmata da Gaspar Noè, eppure, da quando la stessa è entrata a far parte del mio mondo di spettatore, è progressivamente cresciuta la curiosità di scoprire i passi che hanno portato questo incredibile regista fino a quello che, ad oggi, può essere definito il suo Capolavoro.
Irreversible, che, lo ammetto, ho sempre snobbato per questioni di clamore e scandalo suscitati all'uscita e per la presenza a me sempre indigesta della Bellucci, è così approdato sugli schermi di casa Ford, spinto ulteriormente dal post in merito di Lorant.
Risultato? 
Certo, non siamo di fronte allo stesso Enter the void o a Memento - che in più di un'occasione lrreversible ricorda, e non soltanto per la struttura a ritroso della narrazione -, ma ad un'esperienza comunque e senza dubbio fortissima e coraggiosa, disturbante e tecnicamente prodigiosa che rende questo film se non un cult da cineteca una visione quasi obbligata per ogni amante della settima arte.
Alla tecnica va inoltre aggiunto il Cinema estremamente fisico di Noè, che fin dalla terribile prima parte dedicata alla discesa nelle profondità del Rectum e la vendetta - terrificante nel suo clamoroso, istintivo errore - a suon di colpi di estintore travolge lo spettatore così come la morte di Oscar in prima persona nel successivo lavoro del regista.
Il tempo riavvolto, passando attraverso il crescendo di tensione e l'esplosione di malvagità dello stupro di Alex - la scena fu oggetto di polemiche a nastro, eppure risulta davvero disturbante solo nel pestaggio selvaggio dopo la violenza sessuale, e non cerca lo stupore a tutti i costi, in quanto completamente concentrata sull'osservazione entomologica a camera fissa del confronto tra classi sociali ed istinti predatori -, conduce ad un cambio di registro pressochè completo della pellicola, che dilata tempi e dialoghi e diviene quasi un omaggio al Cinema snob ed elitario dei tempi d'oro dei Cahiers tutto dialoghi e triangoli amorosi - la sequenza in metropolitana ed il dialogo tra Marcus, Alex e Pierre pare quasi una sorta di Jules e Jim adattato ai nostri tempi -, lasciando alla conclusione i riferimenti a Kubrick e 2001, regalando acrobazie - a volte troppo insistite, questo occorre ammetterlo - della macchina da presa ed una riflessione da gelare il sangue, figlia dell'ineluttabilità del futuro e già seminata dai sogni premonitori da Alex raccontati alla festa.
Il tempo distrugge tutto.
Lo recita il vecchio ex galeotto dell'incipit prima dell'inizio delle evoluzioni a perdifiato della mdp, lo si legge nella disperazione di Alex prima, nel suo segreto durante e nella gioia poi, anche se in realtà è tutto il contrario di quello che può apparire scritto in questo modo.
E soprattutto, nella spirale da "ultimate trip" che chiude la pellicola, ideale ponte con i titoli di testa e la filosofia costruita sulla morte di Oscar nell'ormai citatissimo Enter the void.
Il tempo distrugge tutto, ci sbatte in faccia Noè.
Potrà anche avere ragione, eppure il miracolo del Cinema ci fa quasi credere il contrario.
E di questo non posso che essere soddisfatto, dato che di questo tempo, sinceramente, non sono mai sazio.
Se vuole distruggermi, si faccia pure avanti.
Ma, così come i protagonisti di quest'opera cruda e crudele o il più tamarro dei Rocky che afferma "per uccidermi, dovrà essere pronto a morire anche lui", io lo fronteggerò senza troppi patemi.
Del resto, anche Noè l'ha fatto, quando è entrato nel vuoto.


MrFord


"You're searching for good times
but just wait and see
you'll come running back (I won't have to worry no more)
you'll come running back (spend the rest of my life with you, baby)
you'll come running back to me."
The Rolling Stones - "Time is on my side" -
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